Andato in scena alla Galleria Toledo di Napoli, C’era una volta un fiume – produzione Metec Alegre – per la regia densa e nervosa di Alina Narciso, magnificamente interpretato da un’infaticabile Alessandra Borgia è uno spettacolo visionario e politico, poetico e feroce.
Una messinscena ossessiva, capace di muoversi e slittare sul crinale sottile tra il racconto mitico e l’allarme contemporaneo. Tra un tempo arcaico e un futuro ormai prossimo, o forse già iniziato.
Al centro della pièce, il timore concreto – e per nulla fantascientifico – della scomparsa dell’acqua. Non un semplice bene naturale, ma un elemento primario, ancestrale, sacro. Liquido amniotico della memoria e del mondo.
Il fiume evocato dal titolo è insieme il fiume della vita e della Storia, della geografia e del Mito. Eppure, questo fiume è assente. Resta solo il suo fantasma, l’eco lontana delle sue acque. Il ricordo inciso nella carne e nel canto.
Narciso firma una drammaturgia che affonda le sue radici nella letteratura latinoamericana, ispirandosi in modo dichiarato e organico a due romanzi fondamentali: La Sombra Protectora della cubana Teresa Melo e Río della cilena Lucía Rojas Maldonado.
Due opere che condividono una visione profondamente politica del corpo e del paesaggio, del femminile e della resistenza, della parola e della natura.
Suggestioni condensate in una scrittura scenica che non si accontenta della narrazione ma diventa evocazione, eucarestia, corpo-sonoro, visione.
Alessandra Borgia – una performance carnale e rituale la sua – dona appunto voce e corpo a questa parola liquida e ruvida, con una presenza scenica che è insieme ieratica e vulnerabile.
La sua è una recitazione che riesce a farsi intima, aggressiva, animalesca, racconto mitologico. Un attraversamento emotivo e fisico connotato da una voce potente che trema, graffia, si piega e si rialza. Mentre il corpo si muove in uno spazio che è paesaggio e rovina, tempio e discarica.
Il tempo sulla scena è sospeso. Non è mai “presente” in senso cronologico. È piuttosto un tempo quasi esoterico, ciclico, stratificato. Il tempo di quel realismo magico che ha reso immortale la letteratura del continente sudamericano.
L’impianto scenico visivo è uno dei punti di forza dello spettacolo. Immagini materiche, ruderi di un mondo collassato, simboli rurali di un passato che non passa e di un futuro che incalza.
Acqua e siccità. Vento e pioggia. Alberi e meduse. Visioni che non illustrano ma evocano, pur risultando a tratti eccessivamente didascaliche.
Tuttavia capaci di imprimersi nello sguardo e nell’immaginario dello spettatore come lacerti di un paesaggio mentale e sensoriale che dialogano in modo potente con l’elemento musicale. Presenza viva e pulsante in scena.
La musica dal vivo – affidata alla compositrice cubana Sandra Agüero Quesada (voce e basso), a Marco Di Maria (sax e fisarmonica) e a Giovanni Imparato (percussioni) – è parte organica e strutturale di questa liturgia laica. Non si configura come semplice “colonna sonora” ma respiro interno dello spettacolo.
Un tappeto musicale che freme, vibra, implode, deflagra, facendo della scena un campo magnetico in cui l’azione teatrale si trasforma in rito collettivo, grido, invocazione. Elegia e danza arcaica.
Non tutto scorre via con la ricercata limpidezza dell’acqua. In alcuni passaggi la musica prevarica il testo e la voce della Borgia si smarrisce tra le note troppo alte. Qualche ridondanza e qualche attimo di stanchezza non mancano.
Pur tuttavia C’era una volta un fiume si impone come un lavoro solido e necessario. Non solo per la qualità artistica ma per il coraggio di porre – attraverso la poesia, la metafora, l’allegoria – una questione centrale e urgente: quella della risorsa dell’ acqua come bene comune, come diritto e come memoria collettiva.
Il fiume che manca – ormai depredato dall’imperialismo di rapina delle multinazionali, con i loro guardiani – è anche la voce dei popoli dimenticati, delle donne che resistono, dei territori saccheggiati del sud del mondo.
Con questo spettacolo, Alina Narciso prosegue dunque un percorso artistico e politico che guarda alla scena come spazio di trasformazione e di coscienza. Quale essa dovrebbe effettivamente essere.
Mentre Alessandra Borgia – con la sua interpretazione – ne è la sacerdotessa laica. Una figura liminale che custodisce la ferita del mondo e la restituisce al pubblico come possibilità di riscatto.
Non c’è nulla di consolatorio in questo C’era una volta un fiume. Ma c’è una bellezza ostinata, necessaria, amara, crudele. Quella della denuncia che sa farsi teatro. Luogo di lotta e visione.
In un tempo di aridità – simbolica e reale – questo spettacolo è semplicemente un atto d’amore per la vita. E per la scena.
Alla fine, durante i ringraziamenti, sul palco la compagnia sventola una bandiera della Palestina. Tra applausi, fischi di approvazione, grida di “Palestina libera dal fiume al mare“. E pugni alzati!
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Alessandra Borgia
Grazie a Vincenzo Morbillo… è bello leggere una vera critica teatrale.,..un piacere antico che si mescola alla nostalgia per un teatro che doveva confrontarsi con la critica. Un tempo in cui i critici autorevoli e intellettualmente onesti come Vincenzo Morvillo avevano un peso
Grazie di essere sopravvissuto all’ involuzione.
Alessandra
Vincenzo Morvillo
Grazie a te Alessandra!