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12 ottobre 1492 o le radici dell’Occidente: pulizia etnica, segregazione, genocidio

Contributo collettivo scritto a più mani, verso il dibattito che si terrà a Roma giovedì 4 dicembre su “Le radici dell’Occidente: colonialismo e genocidio”. Qui maggiori info.

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Negli ultimi due anni, grazie alla mobilitazione in solidarietà con il popolo palestinese, hanno ripreso a circolare nello spazio pubblico terminologie (colonialismo di insediamento, genocidio, apartheid, capitalismo razziale) e tesi (le radici coloniali della modernità capitalistica, la tendenza genocida dello Stato-Nazione, la decolonizzazione delle pratiche e dei saperi, ecc.) che sembravano sopite o, al massimo, chiuse negli armadietti ammuffiti dell’accademia e del suo “anticolonialismo da tavolino”.

Oggi più che mai è fondamentale invece dare una dimensione pratica e attiva alla possibilità di imporre una narrazione che aggredisca le radici coloniali e razziali sulle quali si basa la nostra architettura sociale, in primis il suo mercato del lavoro.

In sintesi, si tratta di dare una dimensione pratica e politica alla consapevolezza di quello che Anibal Quijano avrebbe chiamato “la colonialità del potere capitalistico globale”.

Abbiamo deciso di dare inizio a un percorso di confronto che e attivazione che rifletta sulle radici coloniali e genocide dell’occidente, l’intreccio costitutivo tra capitalismo, colonialismo e razzismo. Un intreccio che interroga non solo le nostre coscienze, ma anche e costantemente le nostre categorie a partire dal rapporto tra razza e classe.

Ripercorrere l’uso delle azioni e delle narrazioni coloniali significa comprendere la loro capacità di riflettere dei rapporti materiali e, allo stesso tempo, come detto dal critico letterario indiano Homi Bhabha, di “costituire un apparato discorsivo in grado di produrre uno spazio materiale adatto alle popolazioni soggette”.

Significa essere in grado di interrogare non solo le somiglianze con la regolamentazione tra le classi in Europa o con le modalità di costruzione dell’immaginario sul nostro “mezzogiorno” funzionale allo sviluppo del nord produttivo, ma soprattutto con l’uso del confine come dispositivo di differenziazione gerarchizzata della manodopera straniera messa in luce da una ormai massa enorme di studi che trovano la loro anticipazione nella famosa espressione di Sartre “colonizzazione a domicilio”.

Sia chiaro che tutto questo non è pensato né come un white-washing, né come la versione intellettual-radicale del cristiano procedere per l’espiazione di un senso di colpa: porci come coscienza anticoloniale significa mettersi in dialettica con pratiche e discorsi provenienti da diverse tradizioni rivoluzionarie per costruire nuovi spazi del conflitto di classe.

In un dibattito di questa estate, un compagno del Movimento per il diritto all’abitare auspicava la costruzione di un nuovo Lenin, di un Lenin che avesse letto Fanon, facendo un esplicito riferimento alla necessità posta dallo psichiatra martinicano di ampliare le stesse analisi marxiste nella situazione coloniale dove la razza è struttura e non sovrastruttura. È questo tipo di Lenin collettivo che bisogna articolare, non mettersi a piangere sul nostro privilegiato ombelico.

Il punto di partenza che ci siamo dati è il simbolico 1492, la conquista delle Americhe e l’inizio del colonialismo da predazione come volano dell’accumulazione capitalistica europea: nel sud l’oro e il circuito europeo; l’aristocrazia parassitaria spagnola, i corsari inglesi, la tratta degli schiavi e lo sfruttamento della manodopera. Al nord invece la battaglia per le pelli pregiate e l’occupazione delle terre nelle tre modalità del New England, della Virginia e della Carolina, fino alla rottura con la corona inglese e l’espansione verso l’ovest: una battaglia di indipendenza che divenne una nuova forma di colonialismo.

Dalla diffusione del vaiolo, il genocidio si intensificò agli inizi dell’Ottocento: Andrew Jackson passa alla storia come grande uccisore di nativi, costretti nel 1812 a cedere il 66% delle loro terre. Pochi anni dopo, il ministro della guerra di Monroe ordina la deportazione oltre il Mississippi, e, nel 1830, l’Indian Removal Act li rinchiudeva in un pezzo di terra che oggi è parte dell’Oklahoma, dove furono costretti a stanziarsi anche i famosi Cherokee quando si diffuse la notizia della presenza di oro nei loro territori della Carolina e della Georgia.

È in questo punto specifico dello spazio e del tempo che bisogna guardare per comprendere lo stretto legame tra subumanizzazione o deumanizzazione dell’altro, gerarchizzazione razziale della manodopera e governo della sua eccedenza, e sfruttamento delle risorse. Sono questi i pilastri delle tre fasi dell’espansione coloniale interna americana: la pulizia etnica e la deportazione dall’est; il genocidio sul Pacifico; la segregazione nelle aree centrali.

Quando Cristoforo Colombo mise piede nel continente, ai Caraibi vivevano un milione di indigeni, ridotti a circa mille appena trent’anni dopo: la storia ci racconta di mani e piedi tagliati, donne violentate e un numero di morti che si stima complessivamente intorno ai 50-60 milioni.

Nel nord, dove francesi e inglesi si contendevano il dominio, la popolazione nativa si ridusse a 400mila nel 1900, dei 600mila del 1800 e dei circa 10-12 milioni di qualche secolo prima: le pessime condizioni di vita ridussero le nascite, l’espansione degli europei favorì la diffusione di malattie mortali per gli indios: il vaiolo, il tifo esantematico.

Da ultimo, la violenza culturicida europea con la sua opera di “evangelizzazione dei selvaggi”, proibiva un intero mondo simbolico fatto di saperi terapeutici, divinità locali, rituali, forme di socialità (spesso scevre dalla presenza del denaro e di poteri centralizzati): molte persone, per non sottomettersi, preferirono il suicidio.

Le missioni evangelizzatrici – e secoli dopo la medicina e la psichiatra – favorirono quella razionalizzazione dei corpi allo scopo dello sfruttamento, riflesso della patriarcale opera di normalizzazione dei corpi femminili che l’inquisizione produsse al centro del continente europeo.

Fu la colonia a essere laboratorio per le pratiche genocidiarie: “campo di concentramento” è una espressione usata dagli spagnoli a Cuba nel 1896, poi dagli inglesi nella guerra contro i Boeri in Sudafrica, dai franchisti in Spagna e solo successivamente adottata dal nazismo. Aimè Cesaire (professore di Fanon a liceo) ebbe a dire che quest’ultimo altro non era che il ritorno a casa di tollerati “metodi coloniali finora riservati agli arabi di Algeria, ai coolies dell’India e ai negri d’Africa”.

La vera invenzione coloniale tuttavia sta nella trasformazione di qualche differenza in “razza” e della ideologizzazione della propria violenza nella forma della “missione civilizzatrice”. Miguel Mellino, uno dei maggiori studiosi di questioni coloniali e postcoloniali, afferma che la genealogia più plausibile del concetto di razza (e la comparsa del termine nelle lingue europee) lo vede emergere alla metà XVI secolo, cioè esattamente all’alba del modo di produzione capitalistico nella sua espansione globale e dopo la conquista delle Americhe.

Sono i nativi americani dunque a essere qualificati come “razza” per la prima volta. Poi fu usato per la conquista inglese dell’Irlanda, a farci subito comprendere che il razzismo è sempre stato sganciato dal biologicismo, se non come sua invenzione o, più elegantemente costruzione sociale.

Un’idea che ha più di qualche punto di connessione con la omogeneità etnica come ossessione costitutiva dell’altro fondamentale dispositivo di produzione di territori e popolazioni moderno, che è lo Stato-nazione, un lascito dalle conseguenze tragiche fuori dall’Europa.

Ogni momento coloniale ha avuto la sua grande narrazione che ha costruito “il selvaggio” da sconfiggere: da un errore di traduzione, e la diffusione di narrazioni esagerate, si diffuse l’idea del cannibalismo sudamericano come produzione simbolica di una “umanità disumana” che clero e impero dichiararono poter essere trattata con la forza delle armi (nello stesso periodo, i protomedici europei consigliavano il consumo di pezzi umani come rimedio contro diverse patologie).

Un famoso testo di William Arens, del 1974, dimostra che la narrazione del cannibalismo era “indipendente dalle prove”: nella sua esplorazione dei documenti, l’autore non era riuscito a trovare un resoconto soddisfacente di prima mano. Ciò non impedì di diffondere un tema narrativo che giustificava il dominio, l’oppressione sistematica e l’uccisione di massa degli indigeni.

Ugualmente, gli spagnoli diffusero una narrazione di “sacrifici umani” ad opera di alcuni gruppi della attuale America centrale e meridionale: a prescindere dalla loro esistenza nel passato, le cronache mostrano che nessuno spagnolo ne vide una. Ma ciò non evitò uno sterminio con dimensioni massive, nella paradossale volontà di evitare i presunti sacrifici umani.

E arriviamo così ai nostri giorni, ridando centralità alle parole dell’intellettuale palestinese Edward Said, per cui valeva un rapido sillogismo senza fronzoli: non vi è cultura moderna senza l’imperialismo, non vi è imperialismo senza la cultura moderna.

La modernità sarebbe dunque non “macchiata” da eccezioni di violenza da condannare, ma apparirebbe costitutivamente basata sulla violenza coloniale in grado di articolare diversi modi di oppressione e sfruttamento.

Da questo punto di vista, le affermazioni di Marx riferite alle violenze coloniali su una pubblica opinione europea che aveva perso ogni coscienza morale e pudore quando “le nazioni cominciarono a vantarsi cinicamente di ogni infamia che fosse un mezzo per accumulare capitale”, vanno lette in dialettica con una produzione culturale che mette sé stessi all’apice di una immaginaria catena evolutiva e assurge il soggetto europeo a unico possibile e universale.

In questo senso, le denunce sui profitti della Leonardo o degli interessi dell’ENI nel gas palestinese non possono essere disgiunte dalla costruzione del selvaggio, reo di farsi rappresentare dai “barbari di Hamas”, incastrati in una narrazione artificiale del 7 ottobre fatta di bambini decapitati e donne stuprate apparsa sui principali giornali e mai dimostrata (al pari del cannibalismo e dei sacrifici umani dei Maya).

Quegli stessi giornali che, anche a distanza di due anni, e alle prese con una narrazione non più sostenibile, non riescono ad uscire da quello schema per cui i palestinesi hanno diritto ad esistere ma a patto che siano “pacifici” (meglio se “pure vittime”), che non si facciano rappresentare da Hamas, e che si volgano allo sfruttamento delle loro terre e delle loro risorse accettando in cambio, al massimo, la mano sinistra dell’impero con i suoi dispositivi umanitari.

Per questo motivo l’apartheid e il colonialismo israeliano appaiono come una sorta di opera riassuntiva di tutto questo che si inserisce nell’apparato neoliberista. Per quest’ultimo va inteso quel movimento storico che risponde alla crisi sistemica del capitale con la produzione di nuove forme di sfruttamento ed estrazione di valore, con l’utilizzo dello stato come macchina principale per l’accumulazione privata e per la restaurazione di un potere di classe e per l’imposizione di gerarchizzazione sociali e logiche aziendalistiche in ogni settore della società, nonché per l’affermazione di autoritarismi e securitarismi in parte iscritti nella storia del capitale, in parte parzialmente inediti.

È per questo che la struttura dell’apartheid coloniale israeliano è riprodotto, o riproducibile, a livello globale. Per contrastare questo fenomeno, ne vanno comprese le diverse radici materiali, ideologiche e psico-culturali.

La prima occasione sarà per giovedì 4 dicembre, ore 18:30 al Circolo GAP di Roma.

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2 Commenti


  • Manlio Padovan

    Mi permetto di segnalare il libro di recente uscita “OCCIDENTE/Due millenni di ipocrisie e pregiudizi”.

    Lo si può trovare su http://www.cdse.it al prezzo di 16,00 euro.


  • Petrillo Angelina

    Articolo molto interessante, grazie. Anche per il suggerimento del libro, da leggere sicuramente.

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