Qualche anno fa Pierpaolo Capovilla (frontman degli One Dimensional Man e del Teatro degli orrori) scrisse un bell’articolo dal titolo “Ho perso un amico” raccontando di un incontro al pub trasformatosi in un incubo: l’amico di sempre, a cui un tempo lo legavano una sensibilità e visione politica comune, era diventato razzista, complottista e totalmente irragionevole.
Bugonia (2025), ultimo film di Yorgos Lanthimos in concorso a Venezia 82, apparentemente racconta proprio di tutti quegli amici che abbiamo perduto. Cerco di non fare spoiler, racconto solo il minimo indispensabile.
Teddy Gatz e suo cugino mezzo scemo, Don, organizzano il rapimento dell’amministratrice delegata di una potente multinazionale del settore farmaceutico, Michelle Fuller. Il progetto criminale si basa su una teoria strampalata: Michelle sarebbe in realtà un’aliena incaricata di portare a termine un piano di sterminio della specie umana.
L’amministratrice delegata non è solo l’incarnazione del successo – bella e ricchissima, estremamente intelligente e preparata, segue una dieta perfetta, vive in una casa perfetta e fa sport ogni mattina – ma è anche di quel liberismo progressista anti-Trump (nel suo ufficio c’è una foto di lei accanto a Michelle Obama) che spesso viene proposto come unica alternativa alle destre autoritarie.
Non è un caso che nella sua azienda si invitino i dipendenti a non trattenersi dopo l’orario di lavoro in modo da potersi dedicare alla famiglia (certo, a meno che non si abbia ancora qualche importante progetto da portare a termine!), e che i principi fondanti siano “inclusività” e “diversity” (anche se sono banale tokenism).
I cugini Gatz ci assomigliano e (forse proprio per questo?) producono in noi un mix di compassione e disgusto: sono dei poveracci che lavorano in una specie di magazzino Amazon, vivono in una casa sgangherata, mangiano junk food e sono ossessionati dalle loro strane spiegazioni sul mondo e sul sistema economico-politico: alieni, terrapiattismo, carta stagnola, informazioni raccattate in giro sul web e tutto l’armamentario al completo delle “teorie del complotto”.
Nel corso di tutto il film la domanda che mi frullava per la testa era: in chi mi sto immedesimando, nei discorsi della razionale e colta Fuller che sostiene le ragioni del suo capitalismo etico o nei cugini scemi che ne denunciano le nefandezze nella cornice del più assurdo complottismo?
Il vero problema è che non c’è un terzo discorso al quale è possibile aderire. Quello che in passato si sarebbe chiamata controinformazione, quella prospettiva critica, decisamente ad appannaggio della sinistra, che si costruiva in opposizione alla narrazione dominante si è polverizzata in mille (strani e strampalati) pezzi.
Lo abbiamo visto con il Covid-19, con chi vuoi stare: con chi impone misure restrittive spesso classiste e puramente repressive o con quelli del “siero” inoculato e del 5G?
Da un lato quella del “complottismo” è un’etichetta utilizzata per screditare ogni visione antisistemica e impedire di sollevare ogni dubbio sulle versioni ufficiali.
Dall’altro è una deriva effettiva: persi i riferimenti, le strutture di intermediazione (partito, sindacato, ma anche la Chiesa, per certi versi) e moltiplicatesi le voci, senza alcuna verifica o verificabilità delle fonti, senza alcuna bussola ideologica capace di inserire queste contronarrazioni in un discorso compiuto e, soprattutto, senza la dimensione di un confronto collettivo (no, lo scambio di commenti al vetriolo sui social non lo sostituiscono) non restano che vaneggiamenti indistinguibili e irrimediabilmente mischiati a legittimi malesseri e, talvolta, anche a giuste istanze e intuizioni.
Se pensate che queste derive siano marginali e riguardino solo il vostro zio strano che vi rovina la cena di Natale forse vi sbagliate. Non solo perché Trump ci ha costruito, letteralmente, un impero in termini di consenso.
Ma anche perché, pure nella colta Europa, si colgono continuamente segnali di questa stessa tendenza ormai da anni.
“Il popolo del Paese in cui vivo sta diventando un mostro”, scriveva Capovilla. Forse di fronte a questa trasformazione dovremmo farci delle domande.
Interrogarci sulle ragioni per le quali ogni volta ci viene messa davanti la Michelle Fuller di turno tendiamo a immedesimarci e proiettarci nella sua classe, cultura e buone maniere che però nascondono tutta la mostruosità di un capitalismo che è altrettanto predatorio e distruttivo di quello “normale”, solo meglio travestito.
Le nostre condizioni, rivendicazioni e bisogni sono più simili a quelli dei cugini Gatz che a quelli della potente Fuller, cerchiamo di non scordarlo.
Dovremmo provare a capire in che modo scorgere i legittimi malesseri e le giuste istanze dietro al delirio complottista e farli emergere, riorganizzarli a partire da strutture e spazi di confronto collettivo.
Una cosa è certa: a pensare da soli si pensa male.
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Andrea G
Articolo ben scritto e pienamente condivisibile.
La recensione del film su lafionda.org giunge a conclusioni analoghe.