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Da Algeri a Teheran: dovuti distinguo

I media internazionali tendono a  trattare tutti allo stesso modo teatri  molto differenti, dove non mancano gli  elementi in comune,  ma tante sono anche le  peculiarità. Un’onda, potente e rabbiosa. L’immagine che  il mondo arabo e islamico sta lanciando  nel mondo è dinamica. Esperti e studiosi,  inviati e commentatori,  riversano fiumi di  inchiostro su quello che   accade,   ma sono  senza parole rispetto a   quello che potrebbe                               accadere, perché in   fondo nessuno lo sa.Egitto e Tunisia sono archiviate, almeno per coloro che ritengono esaurita la fase rivoluzionaria, in attesa dell’evoluzione democratica in entrambi i paesi. Il fuoco è in cammino e non sarà facile spegnerlo. Con il rischio, però, di omologare situazioni molto differenti tra loro. L’Algeria, in primis. Grande manifestazione sabato scorso, grande manifestazione sabato prossimo.

L’ex colonia francese – a grandi linee – si muove nello stesso solco dei vicini nordafricani. Con una differenza molto importante: la memoria. La guerra civile che ha insanguinato il Paese, dal 1990 al 1998, che ha causato la morte di almeno 150mila persone, è una ferita ancora aperta nella memoria collettiva del Paese. Ecco che, pur in presenza di evidenti metastasi nella situazione socio-economica del Paese, pare molto più improbabile che la società civile algerina si lanci in un salto nel vuoto istituzionale, sul modello tunisino. Più probabile un passaggio di poteri all’interno dell’elité economico-militare che governa il Paese, se la situazione dovesse aggravarsi. Di fronte a un’opposizione, però, che al momento ha un’identità molto islamista. Con tutto quello che questo ha comportato negli anni Novanta.

Situazione ancora differente quella dello Yemen. Da tre giorni, nonostante le garanzie fornite dal presidente Saleh di non ricandidarsi e di non lasciare il potere nelle mani del figlio, la piazza ribolle. Uno schema, sulla carta, simile a quello egiziano. Solo che, a differenza dell’Egitto, dove classi sociali differenti si sono saldate attorno alla voglia di cambiamento, facendo leva sull’esercito come elemento di garanzia, lo Yemen è uno stato a pezzi. I ribelli sciiti del nord, i secessionisti del sud, gli integralisti islamici dei clan dello Yemen centrale. A tutto questo si uniscono i milioni di profughi del Corno d’Africa, la cui gestione rappresenta una grande incognita per il Paese. Ecco che, in presenza di elementi comuni, il fronte delle opposizioni al regime di Saleh è frantumato, con l’esercito che si arrocca attorno al presidente, avvinti in un ballo del potere che non regala un’alternativa ai due sodali.

Sono giorni di fuoco anche in Bahrein. I media tradizionali, almeno la maggioranza degli stessi, sta calibrando i racconti da Manama sulla stessa sceneggiatura di quelli visti e sentiti al Cairo o a Tunisi. Difficile metterli sullo stesso piano. La dinastia al-Khalifa, sul modello della famiglia di Ben Alì o della cricca di Mubarak, detiene il potere in modo assoluto da sempre. Una ristretta minoranza della popolazione, circa il 30 percento, di sunniti legati alla famiglia reale gode di un elevato tenore di vita e di tutto il potere, economico e politico. Il restante 70 percento, invece, vive una discriminazione permanente. Si tratta degli sciiti. Ecco che in Bahrein il conflitto prende più i connotati di una eventuale guerra civile, con la componente sciita della popolazione decisa a rovesciare lo status quo.

In Libia, per il 17 febbraio prossimo, è convocata – su internet – una grande manifestazione per chiedere le dimissioni di Gheddafi. Il giorno scelto non è casuale: è quello del massacro di Bengasi, nel 2006. La polizia libica, in difesa del consolato italiano assaltato da dimostranti inferociti (il giorno prima il ministro Calderoli aveva mostrato una maglietta al Tg1 che riproduceva le vignette su Maometto ritenute offensive dai musulmani), massacrò undici persone. La criminale provocazione del ministro italiano, però, è solo la scintilla per un confronto storico, in Libia: il potere centrale, arabo, e la minoranza berbera, che ha proprio a Bengasi il suo fortino. Ecco che la protesta in Libia prende connotati etnici, più che politici. Le rivendicazioni contro il regime del Colonnello, passano ancora una volta nella tensione tra Tripoli e i berberi, anche perché Gheddafi è stato forse il più lungimirante dei dittatori regionali, distribuendo una parte dei proventi dei suoi ricchi traffici alla popolazione, aiutato anche dal piccolo numero di abitanti del Paese. Una spaccatura trasversale alla società libica, più che verticale, come in Tunisia o Egitto.

Ultimo, ma non meno importante, l’Iran. Paese che arabo non è, ma islamico sì. Il 14 febbraio scorso, per un attimo, pareva di essere tornati ai momenti di tensione del 2009, con le violenze che seguirono la rielezione di Ahmadinejad, prima a giugno e poi a ottobre. Una lacerazione che la Rivoluzione Islamica non aveva mai conosciuto. L’onda verde, la chiamarono. Difficile dire se gli scontri del 14 siano sullo stesso registro: mancano alcuni elementi. In primo luogo il bersaglio era molto più l’ayatollah supremo Khamenei che Ahmadinejad. Bisogna indagare il perché. Il presidente Ahmadinejad non è, all’improvviso, diventato gradito alle opposizioni. Ma i movimenti di emancipazione hanno subito, tra il 2009 e il 2010, un colpo durissimo. Al punto che sembra quasi un sommovimento interno alla gerarchia. Alla passione dei ragazzi iraniani, pagata a caro prezzo e in prima persona, non si può mancare di rispetto. Ma di sicuro incuriosisce una dinamica che, nel grande incendio, rischia di far confondere l’osservatore, accecato da tanto fumo, dove tutto sembra uguale, ma non lo è.

* da www.peacereporter.net

 

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