L’inventore di Apple, appena 55 anni, era scomparso dalla vita pubblica da qualche giorno per potersi curare dal riemergere di un tumore al pancreas. I gossippari dell’Enquirer sottopongono la foto alla «visita» di un medico che «diagnostica», scuotendo la testa: «gli restano sei settimane di vita».
La notizia fa il giro del mondo in un attimo. Poi qualcuno dà un’occhiata all’auto da cui il presunto Jobs era sceso. E per quanto leggendariamente spartano sia il suo stile di vita, di certo Jobs non gira con una Accord del 1997. Pochi minuti ancora, e si viene a sapere che il moribondo sarebbe stato ricevuto dal presidente Obama per una «cena informale» a San Francisco, insieme ad altri big dell’information technology: Mark Zuckerberg di Facebook, Eric Schmidt di Google, Jeffrey Immelt di General Electric, e altri di cui non è stato per ora reso noto il nome.
L’attenzione si sposta perciò immediatamente – come dovrebbe sempre avvenire – dal gossip lacrimevole all’ordine del giorno dell’incontro. La nota della Casa Bianca è scarna e cita solo la necessità di «discutere l’impegno per nuovi investimenti in ricerca e sviluppo, istruzione ed energia pulita». Non c’è bisogno di fare i dietrologi: nella sua bozza di «legge finanziaria», presentata solo qualche giorno fa, Barack Obama ha posto con chiarezza le sue priorità per rilanciare l’economia Usa, anche nel bel mezzo di tagli giganteschi a quel poco di welfare che lì esiste. E ha proposto – qui la resistenza dei repubblicani, al Congresso, potrebbe non essere insormontabile – 148 miliardi di dollari di investimenti in infrastrutture. Ben 20 di questo dovrebbero interessare la diffusione di wireless, banda larga e reti di telefonia 4G.
Siccome non siamo in Italia, quei soldi – se passerà la proposta – non verranno distribuiti «a pioggia», ma accompagneranno o incentiveranno una serie di iniziative sul fronte hi tech che però dovranno essere «immaginate» dai colossi dell’information technology stelle-e-strisce. Parlare con gli amministratori delegati delle prime aziende del paese è perciò obbligatorio: loro saranno anche liberi di «fare i soldi», ma se cercano di farli rispondendo a degli input provenienti dal governo Usa sarà meglio. Ne faranno, in fondo, anche di più.
L’incontro, per l’orario italiano, è avvenuto nella notte e ne conosceremo forse qualche dettaglio solo oggi. Ma è indicativo di un altro modo di praticare persino il «neoliberismo» (basti pensare a come qui il governo ha approcciato il «piano Marchionne» e l’annunciato addio della Fiat all’Italia). Bisogna inoltre ricordare che nei giorni scorsi il segretario di stato, Hillary Clinton, si era lanciata in una lode senza riserve di internet e della «libertà» della rete. Un peana persino imbarazzante, se si tiene presente il tentativo Usa di mettere il bavaglio a Wikileaks e le mani su Julian Assange.
Ma se si legge con più attenzione il discorso clintoniano questa «libertà» è da intendere in modo decisamente asimmetrico. «La nuova frontiera delle libertà è su Internet e l’America è determinata a difenderla ed espanderla sfidando i dittatori, per farne una piazza digitale dove valgano gli stessi diritti universali di Times Square o Piazza Tahrir». Una rivendicazione nemmeno troppo diplomatica del ruolo svolto in alcune delle rivolte nel Maghreb e soprattutto in quelle iraniana e libica di questi giorni. E un’ammissione che la Rete è ora un territorio di guerra, in cui si può promuovere una sommossa popolare, destabilizzare governi, provocare crisi locali. Nella stessa occasione ha annunciato altri 25 milioni di dollari per aiutare i cyber-dissidenti in Cina, Cuba, Siria, Vietnam, ecc. Così come un tempo c’era Radio Free Europe che trasmetteva da Berlino verso est, ora ci sono strumenti più pervasivi, interattivi, individualizzabili. Certo, hanno il difetto di essere anche reversibili (come insegna il caso Wikileaks). Per questo, c’è forse ancora più bisogno che il business tecnologico venga convocato a palazzo. Per un’«interazione» forte, ma «informale».
da “il manifesto” del 18 febbraio
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