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Usa, c’è default nell’aria

Questo e non altro è l’Armageddon globale evocata da Obama.

Avviamo già detto che anche noi non crediamo impossibile un accordo dell’ultima ora. La Costituzione Usa permette oltretutto ad Obama di decidere anche in perfetta solitudine, invocando i poteri straordinari dello “stato di guerra”. Ma è chiaramente un’arma a doppio taglio: ogni eventuale insuccesso nella strategia economia sarebbe a quel punto imputabile soltato a lui (e il prossimo è l’anno delle elezioni presidenziali). In secondo luogo, introdurrebbe un precedente pericolosissimo (qualunque altro presidente potrebbe fare altrettanto, a quel punto, per qualsiasi altro contrasto con il Congresso (forzando così definitivamente l’empasse dell'”anatra zoppa”, quando il presidente perde la maggioranza nel Congresso).

I repubblicani odierni sono molto più pazzi di quelli di Wall Street e anche di Bush junior (che è tutto dire). E una parte di loro – l’ala cosiddetta dei Tea Party – gioca davvero allo sfascio per “rigenerare la politica Usa”.

Se scatta il default, Barack Obama rischia l’impeachment. È quanto propone un deputato repubblicano, Steve King, eletto in Iowa. «Se il presidente blocca i pagamenti – attacca King – dovrebbe essere messo sott’accusa». King è tra quei parlamentari che hanno approvato la settimana scorsa il piano cosiddetto «Cut-Cap and Balance». Un provvedimento che è stato poi bocciato dal Senato, dove i democratici hanno ancora la maggioranza.

Obama ha scelto di drammatizzare al massimo il conflitto con i repubblicani sull’innalzamento del tetto del debito, e si è rivolto alla popolazione – ovviamente via tv – per illustrare a tutti i termini dello scontro. Nel discorso, andato in onda alle 21 di New York – le 3 in Italia – ha cercato di mettere con le spalle al muro i suoi avversari, i modo da obbligarli al compromesso entro domenica.

«Il tetto del debito va aumentato, ne dipendono milioni di americani. Non agire causerebbe gravi danni all’economia». Obama si rivolge alla nazione e chiede agli americani di fare pressione sul Congresso per raggiungere un compromesso sul piano di riduzione del deficit e del debito. L’impasse che si è creata è «pericolosa», a rischio ci sono posti di lavoro: senza una soluzione si «rischia una profonda crisi economica causata interamente da Washington».

Obama è fiducioso, un compromesso si raggiungerà. Ma i repubblicani – almeno nel discorso pubblico – non sembrano disposti a cedere: il prossimo è l’anno delle elezioni presidenziali, non dispongono né di un candidato né di un programma forte; in più sono profondamente divisi tra “vecchi repubblicani” realisti e sciroccati reazionari dei cosiddetti Tea Party. E quindi persino lo speaker della Camera, John Boehner, considerato un moderato nel suo schieramento, ha replicato molto polemicamente al discorso presidenziale: «Obama voleva un assegno in bianco sei mesi fa. Vuole un assegno in bianco sulle spese anche ora. Questo non accadrà».

I partiti vanno dunque ognuno per la propria strada e mettono in guardia: già mercoledì potrebbero avanzare in Congresso per il voto le loro iniziative.

Alla scadenza del 2 agosto mancano sette giorni e un accordo sembra lontano, anche se alcuni osservatori ritengono che al di là delle dichiarazioni pubbliche, le parti siano più vicine. «Un default è un risultato avventato e irresponsabile del dibattito» evidenzia Obama. «In passato l’aumento del debito è stato un routine. Fin dal 1950 il Congresso l’ha sempre passato e i presidenti lo hanno firmato. Reagan lo ha fatto 18 volte. George W. Bush lo ha fatto sette volte. Ora dobbiamo farlo noi entro il 2 agosto».

Obama cita le parole di Ronald Reagan: «Tagliereste il deficit e manterreste i tassi bassi facendo pagare di più coloro che non pagano abbastanza o vi terreste un ampio deficit, alti tassi di interesse e tasso di disoccupazione alto? Ritengo che la risposta la sapete». L’atteggiamento dei repubblicani – spiega Obama – ha creato un’impasse pericolosa. «Abbiamo gli occhi del mondo addosso». «Nessuno dei due partiti è irreprensibile per le decisioni che hanno portato a questo problema, e hanno la responsabilità di risolverlo. negli ultimi mesi è quello che abbiamo cercare di fare», con un approccio bilanciato che avrebbe portato le spese ai livelli più bassi da Dwight Eisenhower. «L’approccio bilanciato chiedeva a tutti piccoli sacrifici e avrebbe ridotto il debito di 4.000 miliardi di dollari senza rallentare l’economia».

«L’unica ragione per cui questo accordo non diventerà legge ora è un significativo numero di Repubblicani in Congresso insiste su un approccio solo di tagli, un approccio che chiede nulla ai ricchi americani e alle grandi aziende .

«Questo non è il modo in cui si guida il più grande paese della Terra, non permetteremo che gli americani diventino danni collaterali di una guerra politica – ha detto – se volete che si risolvi in modo equilibrato la riduzione del debito, fatelo sapere ai vostri rappresentanti al Congresso».

Il dollaro, scontando lo stallo delle trattative sull’aumento del debito Usa, scivola nelle contrattazioni sui mercati valutari di Tokyo sotto quota 78 yen (a 77,88) e aggiorna i minimi degli ultimi 4 mesi. L’euro, inoltre, si rafforza sui valori segnati a New York e passa di mano a 1,4372 contro il biglietto verde e a 112.56 contro lo yen.

 

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Galapagos
DEBITO PUBBLICO · Non c’è accordo con i repubblicani sulla manovra correttiva
Obama con il cerino in mano
L’Fmi chiede un accordo immediato. Le società di rating minacciano di declassare gli Usa

 

Sabato sera Obama era stato perentorio: «prima dell’apertura di Wall street di lunedì dovranno arrivare le risposte alla riduzione del debito». Ma risposte non ne sono arrivate: non c’è accordo tra repubblicani (che hanno la maggioranza alla camera) e democratici (che controllano il senato). A far superare le divergenze non sono servite neppure le notizie arrivate dai mercati asiatici e da quelli europei tutti in forte ribasso per il timore del «default» del debito sovrano della maggiore potenza economica mondiale. Intanto ieri il Fondo monetario ha lanciato un appello a maggioranza e opposizione di fare presto perché «è urgente aumentare il tetto del debito e raggiungere un accordo su un ampio piano di risanamento dei conti di medio termine». Le trattative nel week end tra democratici e repubblicani sono state intense, ma si sono chiuse con un nulla di fatto. Se questa situazione durasse fino al 2 agosto (in particolare, se non si troverà un accordo per alzare il tetto del debito pubblico) verrebbero sospesi tutti (o quasi) i pagamenti federali a cominciare dal rimborso dei bond in scadenza, al mancato pagamento degli interessi, delle pensioni e di un po’ tutto il welfare. Quelle che vorrebbero approvare i due schieramenti sono manovre incompatibili che, come tali, non hanno la possibilità di arrivare all’approvazione finale del Congresso e essere firmate da Barack Obama. Al di là delle differenze sostanziali, c’è un aspetto politico difficilmente superabile: i repubblicani stanno giocando sporco e propongono solo una piccola manovra per arrivare alla fine dell’anno e costringere i democratici a una correzione dei conti «lacrime e sangue» per il 2012, cioè per cercare di bloccare la possibile rielezione di Obama alle presidenziali del prossimo anno. Il piano sostenuto da John Boehner, portavoce dei repubblicani alla camera, prevede un’azione in due tempi: prima un taglio di spese limitato a mille miliardi, e un rialzo limitato del tetto del debito che consentirebbe al Tesoro di rifinanziarsi solo fino alla fine del 2011. Lo scontro finale sul risanamento viene così rinviato al prossimo anno, in piena campagna per l’elezione presidenziale. Al Senato i democratici guidati da Harry Reid vogliono un piano diverso: 2.400 miliardi di tagli al deficit, con riduzioni delle spese sociali ma anche nuove entrate (in particolare l’eliminazione degli sgravi concessi da George Bush ai contribuenti più ricchi), per alzare il tetto del debito fino al 2013. Occorre ricordare che per il 2010 era stato fissato un tetto al debito pubblico di 14.290 miliardi, ma alla fine di quest’anno il debito dovrebbe salire senza interventi correttivi a quasi 15.500 miliardi. Di qui la necessità di varare un piano di tagli alle spese o di nuove entrate, ma anche quella di alzare il tetto del debito: se non avverrà entro il 2 agosto, il Tesoro avrà esaurito l’autorizzazione legale per emettere nuovi Bond da collocare tra gli investitori per rifinanziarsi e pagare stipendi, pensioni, cedole sui titoli già in circolazione. Oltretutto sugli Stati uniti pende la minaccia dell agenzie di rating che già in settimana potrebbero declassare gli Usa con conseguenze pesanti sui tassi di interesse che dovrebbero essere pagati dal Tesoro. Senza contare che un aumento di mezzo punto dei tassi potrebbe provocare una minore crescita dello 0,5% del Pil. Una situazione nella quale non potrebbe intervenire neppure la Fed che si deve limitare a acquistare bond unicamente sul mercato. Per evitare la paralisi e il «default» Bill Clinton ha suggerito a Obama di ricorrere a una legge di guerra che consente al presidente la facoltà unilaterale di alzare il tetto del debito. Ma si tratta di una mossa azzardata: di fatto farebbe di Obama l’unico responsabile della crescita del debito che, invece, è iniziato a salire con le amministrazioni repubblicane. Basti ricordare che ai tempi di Clinton il bilancio si chiudeva addirittura in attivo. Il default degli Stati Uniti sarebbe senza precedenti: bisogna risalire al ‘700 e all’800 per trovare alcuni casi di fughe dai Treasuries e da securities a stelle e strisce. Secondo Mohamed ElErian, che dirige in Pimco il più grande fondo obbligazionario al mondo si sta preparando «il terreno politico a un compromesso di breve periodo» che danneggerà i corsi azionari e il dollaro e lascerà il rating americano «estremamente esposto a un pericoloso declassamento». Ma cosa accadrà in caso di default? A Wall Street è diffusa la convinzione che gli Usa darebbero priorità al pagamento degli interessi, per minimizzare gli shock, ritardando il rispetto di altri obblighi, quali pensioni o stipendi federali. C’è però il rischio di una caduta della fiducia sul quale si regge il gigantesco mercato dei Treasuries americano. Inoltre i Treasuries costituiscono un pilastro del sistema finanziario globale: sono detenuti sotto forma di capitale dalle banche, servono da garanzia sui mercati dei derivati e hanno rappresentato l’investimento sicuro per eccellenza anche per le riserve valutarie di paesi come la Cina che ne ha 1.200 miliardi.

da “il manifesto” del 26 luglio 2011

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da IlSole24Ore

Il bivio degli americani

di Mario Platero


L’America è a un bivio. Nelle prossime ore, al massimo nei prossimi due giorni, Washington dovrà dare prova di capacità di reazione, di saper uscire del solito circolo vizioso della “Beltway”, la cintura soffocante delimitata dalla Interstate 495, che chiude al suo interno un dibattito politico sempre asfittico.

È il luogo comune che tutti promettono di superare in campagna elettorale, senza poi mantenere, come ci conferma il dibattito sterile delle ultime settimane sul bilancio.

Ma questa volta è diverso. Il bivio è molto ben indicato, perché se l’America non rischia il default, rischia a breve il downgrading per un mancato accordo credibile sulla riduzione del disavanzo pubblico e del rapporto debito/Pil che sarà già alla fine di quest’anno del 102%. Quando il downgrading arriverà – e in questa condizione di paralisi politica si tratta solo di tempo – saremo alla fine di un mito: per la prima volta il rischio America, percepito da sempre come l’investimento «of last resort», sarà vulnerabile. E di questi tempi entrare in territorio inesplorato è altamente pericoloso.

Da ieri infatti il mercato ha cominciato a percepire i primi segnali di una visione più chiara della posta in gioco sul fronte disavanzo: se non si farà qualcosa di credibile, il rischio è che per il 2012 si arrivi a un rapporto già del 110%. Un percorso esplosivo. E c’è già chi parla attorno all’annuncio di una possibile riduzione dei valori dei buoni decennali fra i 100 e i 200 punti in un sol giorno. Fatto rarissimo se dovesse davvero verificarsi. L’oro, l’abbiamo visto sempre ieri, è di nuovo in corsa su nuovi record. La Borsa in ribasso. Il dollaro si è indebolito sull’euro. Il credit default swap sugli Usa è diventato più caro di quello indonesiano, forse perché è un mercato molto modesto. Ma in un clima di fragilità psicologica anche questo non aiuta.

Il mercato si è già spostato da tempo dalla percezione rischio “default” a quella rischio “downgrading”. Le due cose sono molto diverse. Il default è stato sempre escluso per varie ragioni. Intanto perché si tratta di una questione tecnica: è ovvio che l’America non rischia come la Grecia di non trovare credito sul mercato. Ci sono poi state già delle precauzioni: alle recenti aste del Tesoro, inclusa quella di ieri, si è progressivamente diminuita l’offerta.

Questo per poter restare entro i limiti del tetto del debito al di là del 2 agosto se l’accordo finirà per essere ratificato in ritardo. C’è anche la possibilità che Barack Obama invochi il 14esimo emendamento della Costituzione che attribuisce poteri speciali al Presidente per potere ripagare il debito, la cui validità, dice la Costituzione «….non sarà messa in dubbio…..inclusi i debiti per le pensioni o per pagare servizi utili a reprimere le ribellioni». Ma la parola finale in materia, per quel che abbiamo sentito in autorevoli ambienti finanziari a Wall Street, è di John Boenher, il Presidente repubblicano della Camera. Ci risulta che abbia chiamato personalmente alcuni dei grandi protagonisti della finanza americana per rassicurarli: forse non ci sarà accordo sulla riduzione del disavanzo, ma ci sarà accordo per evitare il default americano: «pagheremo i nostri debiti» avrebbe detto a uno di loro.

E qui interviene il posizionamento dei finanziari americani sul rischio contagio. Coloro che abbiamo interpellato a New York, di quelli accusati spesso di muovere i mercati in modo solo speculativo, ci hanno dato privatamente un quadro sobrio della situazione nel suo insieme. Ad esempio, è sbagliato pensare che alcuni di loro vogliano fare la guerra all’euro solo per ragioni speculative. In alcuni casi è vero l’opposto. Chi ha investito in titoli azionari come hedge contro l’inflazione ha il terrore che la Grecia e l’Europa si avvitino di nuovo. Chiedono che si risolva al più presto il problema irlandese, e chiedono riforme strutturali a Paesi come l’Italia. Ma si rendono conto che oggi il problema vero passa per l’America, il vero gigante d’argilla in materia di conti con un deficit che raggiungerà i 1.500 miliardi di dollari. La direzione al bivio è chiara, ma non necessariamente si imboccherà quella dei tagli necessari, 4.000 miliardi di dollari in 10 anni, per un attimo a portata di mano. Insomma siamo al solito problema all’interno della “Beltway”. Anzi, a quello implicito in ogni democrazia liberale.

 

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