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Libano, l’inchiesta Hariri si chiude, lo scontro politico si riapre

 

Telefonia colorata Il rapporto, che utilizza i tabulati di telefonia portatile forniti dai Servizi libanesi, ha ricostruito il ruolo giocato dai sospettati e da altre persone tutt’ora non identificate che per mesi prepararono l’azione restando collegate fra loro. L’atto d’accusa parla di due canali di contatto, uno segreto fra i membri dell’organizzazione e uno aperto verso l’esterno. Cinque le reti telefoniche, tutte indicate per colore. Una rete rossa fu usata dal gruppo di fuoco dal 4 gennaio al 14 febbraio 2005 fino a un paio di minuti precedenti alla deflagrazione. Questa rete sostituì la precedente “verde” attiva dal 13 ottobre 2004. Aperta e rivolta all’esterno era invece la “blù” funzionante sino al settembre 2005, dunque sette mesi dopo la morte del premier. Molto più antica, dal 1999 al 2003, la rete gialla ma gli inquirenti hanno constatato che nei mesi precedenti all’azione gli apparecchi vennero sostituiti da quelli blù che fornivano indicazioni sugli spostamenti di Hariri. Infine la rete viola permise al gruppo di fuoco di comunicare nei due giorni successivi al grande boato sul lungomare di Beirut. Un capitolo a parte analizza la preparazione dell’agguato. I giudici sostengono che fra l’11 novembre 2004 e il 14 febbraio 2005, Ayyash e altri compirono atti preparatori, fra cui la sorveglianza di Hariri e della scorta per conoscerne i vari itinerari e i movimenti legati agli impegni dell’uomo politico. Lo spionaggio serviva anche ad avere conoscenza del suo parco macchine. E’ in base a tale meticoloso lavoro che gli attentatori hanno fissato giorno, ora e luogo della deflagrazione incuranti che si svolgesse in pieno centro.

 

Il parafulmine palestinese Oneissi e Sabra furono incaricati di trovare uno sconosciuto da usare per una falsa rivendicazione a mezzo video. Oneissi, col nome di Mohammed, reclutò nella Moschea Al-Houry il ventiduenne palestinese Abou Adass che a metà gennaio lasciò la sua abitazione senza più farvi ritorno. Mentre Ayyash l’11 gennaio si recò a Tripoli in un salone d’auto dove due settimane dopo fu acquistato la Mitsubishi Canter poi trasformato in auto-bomba. A dimostrazione di come le linee “colorate” degli attentatori fossero da giorni all’erta i giudici riportano l’amplissima attività telefonica avvenuta il 20 gennaio 2005, quando Hariri visitò la grande Moschea. L’8 febbraio i movimenti del premier furono simili a quelli del giorno dell’attentato. Percorse al mattino il tragitto dal Palazzo Koraytem al Parlamento rientrando verso le 13:45 nella sua residenza nella zona dov’è l’hotel St. Georges. Quel giorno le linee rossa e blù furono particolarmente calde. La cosa si ripetè il 14 febbraio con 33 chiamate sulla linea rossa fra le 11 e le 12:53. Due minuti dopo un uomo fece esplodere se stesso e la Mitsubishi al passaggio del corteo di macchine di Hariri e di alcuni suoi ministri. Fra i resti dei corpi ritrovati dopo l’esplosione c’era anche quello dell’attentaore-suicida che per i magistrati però non è il palestinese Abou Adass. Settantacinque minuti dopo la strage Oneissi e Sabra effettuarono quattro telelefonate alle redazioni dell’agenzia Reuters e della tv Al Jazeera a Beirut. Le chiamate provenivano da diverse cabine e utilizzavano la medesima scheda prepagata. La rivendicazione fu fatta a nome d’un gruppo islamico fondamentalista denominato “Vittoria e Jihad nella Grande Siria”. Più tardi i giornalisti dell’emittente di Doha vennero istradati verso una cassetta videoregistrata in cui Abou Adass si dichiarava autore dell’attentato e ne minacciava altri.

Prove circostaziali Il leader sciita Nasrallah, che già a giugno aveva tuonato contro il TSL additandolo come organo di parte formato da molti giudici che avevano lavorato per Stati Uniti e Cia, ribadisce che il Tribunale procede per tesi. Non sono prove quelle rivolte ai membri del suo partito ma ipotesi costruite su materiale fornito da un’Intelligence screditata com’era quella libanese dell’epoca altamente infiltrata da agenti israeliani. Il TSL non ha voluto esaminare le registrazioni che documentavano quest’accusa, sostenendo che fossero prove di parte fornite dagli apparati di sicurezza di Hezbollah. Per il sayyad è in corso un complotto orchestrato da Usa e Israele contro il suo partito e una voluta destabilizzazione del governo Miqati di cui Hezbollah è l’asse centrale. Tutto ciò ripropone una spaccatura del Paese che rischia una scivolata verso il triste passato della guerra civile. L’ex premier Saad Hariri censura questa posizione sostenendo come “I fratelli sciiti non sono affatto minacciati dal resto dei libanesi”. Comunque gli stessi inquirenti devono ammettere che il loro rapporto si basa su prove circostanziali. In questi giorni di dibattito lo ha sottolineato più di un analista mediorientale. Dice Kamel Wazni “L’accusa scopre che esistevano reti telefoniche di controllo, non può però affermare che fossero gli uomini di Hezbollah a usarle. Non c’è alcuna prova concreta che li lega all’assassinio”. Per Rami Khouri editore del quotidiano libanese Daily Star “I dettagli sono assai convincenti, certo occorre comprendere se il processo sia credibile o si basi su pregiudizi politici”.

 

Enrico Campofreda, 18 agosto 2011

 

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