A noi non era piaciuto, fin dall’inizio, l’invito all’autoschedatura dei singoli utenti, che consegnano – gratuitamente e felicemente – ogni propria angolazione caratteriale o convinzione politico-culturale a un database controllato da una macchina per far soldi (quando va bene…) e che non può risultare inaccessbile agli “organi di investigazione”. In tempi di pace sociale, sembra più che altro una curiosità. In temi di rivolta – come si è visto dopo gli scontri in Gran Bretagna – l’autoschedatura diventa uno dei primi metodi di investigazione poliziesca.
Qualcuno potrebbe dire “ma anche le rivolte del Maghreb sono partite col tam tam su Facebook e Twitter”. Qui l’asino virtuale deve chinare il capo davanti al padrone reale: chi controlla le basi dati dei social network? i singoli regimi (democratici e dittatoriali, non fa in questo caso differenza) oppure gli Stati Uniti (e a cascata i loro aleati subordinati nella Nato)?
L’approccio scelto dalla magistratura tedesca è ovviamente diverso. Lì si punta sulla privacy e sulle leggi di mecato. Ma il problema, strutturalmente, è lo stesso.
Buona riflessione!
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da Il Sole 24 Ore online.
Facebook sotto accusa in Germania: il tasto “mi piace” dichiarato illegale
Nuova tegola per Facebook in Germania. Il garante della privacy dello Stato dello Schleswig-Holstein, Thilo Weichert, ha intimato ad aziende e istituzioni di rimuovere il pulsante “like” (mi piace) dai loro siti e di chiudere le loro pagine sul social network. Il motivo? La società creata da Mark Zuckerberg violerebbe le leggi tedesce ed europee facendo passare i dati immagazzinati da Fb nei suoi server Usa.
L’accusa del garante: utenti monitorati per due anni a loro insaputa
«Chiunque visiti Facebook o utilizzi un plug-in deve aspettarsi che lui o lei saranno monitorati dalla compagnia per due anni». Facebook, è l’accusa di Weichert, incamera le informazioni lasciate da utenti e non utenti e costruisce anche profili personalizzati giudicati illegali dal garante. La difesa del social network non si è fatta attendere. Un portavoce di Fb ha ammesso che la società «può vedere le informazioni come l’indirizzo Ip» degli utenti che visitano un sito cliccando sul bottone “mi piace”. «Noi distruggiamo questi dati tecnici – prosegue – entro 90 giorni. Ciò è in linea con i normali standard del settore».
Fb già nel mirino del ministro dei consumatori
La guerra tra le autorità tedesce che difendono la privacy dei cittadini e il più famoso social network non è però cominciata oggi. Già lo scorso anno il ministro tedesco per la protezione dei consumatori, Ilse Aigner, aveva lamentato la scarsa tutela accordata da Fb alla riservatezza degli utenti. «Numerosi controlli della privacy sono stati migliorati, ma quel che è stato fatto non è sufficlente ed è in violazione della legge tedesca». Nel mirino era finita l’introduzione di nuove funzioni che mettono automaticamente in condivisione i dati degli utenti con parti terze. «Una società Usa che guadagna denaro in Germania – aveva detto Aigner – non può ignorare questo. Non è molto facile controllare installazioni e molte opzioni devono essere cambiate dagli utenti».
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Non banale, anzi inquietante perché capace di cogliere molti aspetti concretissimi (e le loro conseguenze sistemiche) delll’universo del “virtuale”, anche la riflessione di Guido Rossi.
I nuovi diktat delle Signorie dell’attenzione
di Guido Rossi
Mentre la società della speculazione sta portando verso una depressione economica mondiale finora sconosciuta e minaccia seriamente le strutture politiche e sociali dei vari Paesi, un altro e ben più inquietante e silenzioso virus sta assaltando la salute del mondo.
La notizia, apparsa quasi alla chetichella, sovrastata dal fragore delle cronache che riportano da settimane la brutale caduta delle borse e le strampalate ricette provenienti da ogni dove, è il fantasmagorico acquisto da parte di Google di Motorola Mobility per 12,5 miliardi di dollari con un sovrapprezzo di più del 60% sul valore di Borsa.
Una sorprendente controtendenza che ha come possibile spiegazione la proprietà di circa 17.000 brevetti di Motorola. Mentre la società della speculazione viene da ogni parte esorcizzata e temuta nel difetto di autorevolezza dei leaders mondiali e delle istituzioni internazionali, la società dell’informazione con la sua illimitata moltiplicazione di beni immateriali sta con la sua logica attaccando le culture, le politiche e financo le democrazie.
Il dominio della rete, diviso in potentissime Signorie, appunto Google, oltre ad Apple, Microsoft e poche altre, ha da tempo attaccato il principio fondamentale sul quale era basato il diritto di proprietà di beni materiali e immateriali (come il copyright ed i brevetti), considerato da sempre come sacro e inviolabile. La proprietà immateriale nella società dell’informazione è diventata di tutti, di libero accesso per chiunque.
La proprietà intellettuale non è più di nessuno e l’informazione con i vari strumenti messi ora a disposizione dalle Signorie ha cambiato il modo di vivere, il linguaggio, il modo di comunicare del mondo intero. Le nuove tecnologie hanno distrutto i vecchi sistemi di protezione della proprietà e alcuni tradizionali istituti giuridici.
Ciò che ha radicalmente trasformato l’economia dell’informazione non è ancora stato ben capito; ciò che quell’economia vende non è infatti l’informazione ma l’attenzione. Quando l’informazione è a buon mercato l’attenzione diventa costosa. E l’attenzione è ciò che noi tutti nell’uso della rete diamo gratuitamente a Google. E la nostra attenzione è ciò che Google vende. L’attività lucrativa di Google non è la ricerca ma la pubblicità. Più del 96% dei suoi 29 miliardi di dollari di utile dello scorso anno derivarono direttamente dalla pubblicità e il resto da altri servizi a questa connessi. Google fa più pubblicità di tutto l’insieme dei giornali americani. Apple capitalizza da sola più di tutte le banche europee e ha superato per capitalizzazione la Exxon, rubandole il primariato mondiale del valore di Borsa. D’altra parte i numeri parlano chiaro: Apple ha una maggiore liquidità del Governo degli Stati Uniti.
Naturalmente il diritto tradizionale, sia quello antitrust nelle guerre fra le Signorie dell'”attenzione”, sia quello più antico e inalienabile della proprietà dei beni immateriali che nell’economia globalizzata stava prendendo il sopravvento su quella dei beni materiali, è stato frantumato senza scampo dalla tecnologia della rete. Ma questa apertura alla proprietà collettiva della rete non sembra rispettare né i principi prospettati da Karl Marx, e neppure quelli di interesse comune.
Il potere politico dei social media ha dato di sé controverse e certo non sempre liberali versioni della propria attività. È ormai quasi un luogo comune ritenere che la società dell’informazione sia l’espressione più viva della cosiddetta società civile e abbia positivamente influenzato le rivolte nel mondo arabo, in Tunisia, in Egitto e in Libia, o nella più vicina Spagna già con il primo ministro Aznar ed ora con Zapatero, anche se altre volte con minor fortuna, come nelle rivolte contro il Presidente Lukashenko in Bielorussia piuttosto che in Iran o in Thailandia con le camicie rosse nel 2010. Ma l’esempio di Google con la Cina non è certo esemplare. Fin dal 2004 collaborò con la censura, filtrando i risultati della rete per evitare che apparissero quelli non graditi dal governo.
L’esempio più noto è “piazza Tienanmen” che riproduceva guide e visite turistiche senza alcun riferimento ai fatti storici. Google stabilì come operare la censura in base al motore di ricerca Baidu e accettando anche una guida supplementare da parte del governo. L’avventura cinese di Google ebbe però una svolta nel gennaio del 2010 dopo che organizzati hackers si introdussero nel suo sistema ed ebbero accesso alle caselle di posta elettronica dei dissidenti governativi. La conclusione è che ora Google serve la Cina solo da Hong Kong con risultati censurati da filtri governativi.
La ragione è fin troppo ovvia. Le Signorie dell'”attenzione e della pubblicità” hanno come unico scopo il lucro e la libertà di internet completamente nelle loro mani può essere pericolosamente strumentalizzata senza alcun controllo né democratico né d’altro genere. Internet da mondo di libertà è diventato stato feudale. C’è allora da chiedersi quanto convenga continuare a pensare come individui piuttosto che come condizionati neuroni di un cervello universale.
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