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Piazza Tahrir contro Israele

Non si tratta però di banale sottovalutazione giornalistica (“a chi volete che importi se qualche poliziotto egiziano viene ucciso da soldati si Israele”), ma di una sistematica e coordinata cancellazione delle notizie che potrebbero porre Israele in “cattiva luce” davanti all’opinione pubblica. Occidentale, ovvio.

Del resto, qualsiasi governo israeliano ha praticato piccole e grandi rappresagli come questa, nella convizione che dall’altra parte del confine (il potere di Mubarak o dei successori, come anche verso la Giordania o il Libano) avrebbero “capito la lezione” e cessato queel minimo di solidarietà con i palestinesi che spesso consiste solo nel chiudere un occhio sul passaggio di rifornimenti verso la martoriata Gaza.

A questa asimmetria informativa, da sempre, gli arabi sono abituati. Pur sapendo, chianavano il capo davanti ai brutali rapporti di forza. Le cose vanno cambiando. Queste cronache da diversi giornali lo mettono in chiaro. La direzione di marcia non è chiarissima, ma che la Storia sia in Medio Oriente (e non solo, certamente) a una svolta, sembra sicuro.

 

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Paolo Gerbaudo

IL CAIRO

Di fronte al palazzone che al dodicesimo e tredicesimo piano ospita l’ambasciata israeliana, adesso c’è una fila i blindati dell’esercito egiziano, mitragliatrici spianate, soldati vigili sulla torretta. Ma sull’asfalto ci sono ancora i segni dei roghi, dei bengala, e delle pietre degli scontri che cominciati venerdì sera sono andati avanti fino all’alba di sabato.
Appresso ad uno dei cespugli spinosi della rotonda nella piazza che confina con l’entrata del giardino zoologico e il palazzo dell’ambasciata israeliana, c’è un brandello di una delle centinaia di pagine di documenti ufficiali che venerdì sera sono stati lanciati dalla finestra della sede diplomatica, la stella di Davide che fa capolino sotto una foglia. Su un marciapiede gruppi sparuti di manifestanti continuano a inneggiare contro Israele. Su un altro contro-manifestanti (ancora più sparuti) affermano che l’evento ha messo in cattiva luce l’Egitto e la sua rivoluzione.
In questa piazza senza nome, che nel cuore di tanti rivoluzionari egiziani ha sostituito piazza Tahrir, venerdì notte è stata battaglia tra manifestanti e polizia. Battaglia come non si era vista dai giorni gloriosi della rivoluzione contro Mubarak. Una battaglia che ha lasciato sul terreno tre morti, e 1049 feriti, secondo il bilancio provvisorio stilato dal ministero della salute egiziano, spingendo la giunta militare a dichiarare lo stato di allerta ed il primo ministro Sharaf a rassegnare le dimissioni poi rifiutate. E la crisi non riguarda certo solo la politica interna, dato che l’assalto all’ambasciata ha pure spinto l’ambasciatore israeliano, appena tornato in Egitto a lasciare il paese con un volo militare diretto a Tel Aviv, nella crisi più grave nella storia del trentennale trattato di pace tra i due paesi.
Eppure la giornata di protesta di venerdì era cominciata sotto tono con una manifestazione a Tahrir che era stata ben sotto il milione di persone annunciato dagli organizzatori. Attorno all’enorme rotonda resa celebre dalla rivoluzione erano comparsi di nuovo striscioni e palchi di gruppi e partiti, parenti dei martiri con le foto dei propri cari, al lato di venditori ambulanti, in un’atmosfera rilassata che sapeva più di festa di paese che di rivoluzione.
Poi verso le sette di sera è arrivata la mossa a sorpresa. Il grosso dei manifestanti, con in prima fila i tifosi dei club di calcio cittadini Al-Ahly e Zamalek, è cominciato ad uscire dalla piazza e a scendere lungo il grande corso di Kasr-el-Nil. Dove andassero sarebbe dovuto essere chiaro a tutti, polizia compresa: all’ambasciata israeliana nel quartiere di Giza. Del resto è dal 18 agosto che tutti i giorni lì si concentrano centinaia di manifestanti per far sentire la propria rabbia per l’uccisione di 6 poliziotti di frontiera egiziani. Uccisi dagli israeliani che inseguivano a ridosso del Sinai un gruppo di palestinesi che avevano attaccato un pullman diretto alla località balneare di Eilat, uccidendo 7 civili e 2 soldati.
Il 21 agosto durante una delle proteste uno dei manifestanti era riuscito a scalare fino al 13esimo piano dell’edificio che ospita l’ambasciata di Israele, sostituendo la bandiera di Davide, con quella d’Egitto con al centro la grande aquila dorata di Saladino. Un piccolo assaggio di quello che sarebbe successo pochi giorni dopo. Allertata dall’evento, la giunta militare aveva pure innalzato un muro di protezione intorno all’edificio. Ma la mossa ha solo contribuito a esacerbare gli animi dei manifestanti, a cui quel muro ricordava quello eretto contro i palestinesi.
Per abbatterlo venerdì ai manifestanti ci sono volute poche ore. A partire dalle 4 di pomeriggio hanno cominciato a colpirlo con sbarre di ferro e martelli senza essere troppo impensieriti dalla polizia anti-sommossa. Poi, verso le otto di sera, quando il grosso di manifestanti è arrivato da Tahrir, le esigue linee di polizia messe all’ingresso dell’edificio sono dovute presto battere in ritirata consentendo ad almeno 30 persone di salire le scale dello stabile, fino ai piani più alti in cui si trovano gli uffici diplomatici.
Se l’ambasciata vera e propria sarebbe rimasta indenne, l’ufficio consolare è stato preso d’assalto dai manifestanti, che hanno malmenato un impiegato e hanno messo a soqquadro scaffali e scrivanie. Poi è cominciato il lancio di documenti dalla finestra, con fogli di carta intestata che sono atterrati lentamente sulla piazza di fronte all’ambasciata in una scena surreale che per un attimo ha ammutolito non solo la polizia ma pure i manifestanti, prima dei lanci celebrativi di bengala e delle grida “Horreya! Horreya!” (libertà) e “Tasqot, tasqot Israil” (abbasso Israele).
La polizia ha provato a respingere i manifestanti ed è riuscita a cacciare gli invasori dagli uffici diplomatici di Israele. Ma presto si è vista costretta ad arretrare verso nord, a ridosso della centrale di polizia di Giza, che non è stata data alla fiamme solo grazie all’arrivo dei blindati dell’esercito. La battaglia è andata avanti tutta la notte con ondate continue di attacchi da parte dei manifestanti . Per disperderli non sono bastati lacrimogeni e pallottole di gomma. Il grosso della folla si è ritirato solo dopo che i militari hanno cominciato a sparare in aria raffiche di avvertimento e i blindati della polizia si sono lanciati in caroselli a tutta velocità contro la folla.
Mentre ieri i manifestanti attendevano con trepidazione notizie dalla riunione di emergenza del consiglio militare convocata per la serata, gli egiziani si dividevano tra la gioia e la preoccupazione per le conseguenze dell’evento. Secondo Kamal, un meccanico ventenne di Giza, «questa è la dimostrazione che gli egiziani sono liberi e non si faranno mettere i piedi in testa da nessuno». Ma c’è chi come Mohammed Sharqawi uno studente di scienze politiche vede pericoli profilarsi all’orizzonte. «A noi egiziani non interessa fare la guerra con Israele. Questo è quello che vogliono i salafiti e i fratelli musulmani. Se scoppia una guerra possiamo dire addio alla nostra rivoluzione»

da “il manifesto” dell’11 settembre 2011

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Michele Giorgio 
DA TEL AVIV
La reazione soft di Bibi Netanyahu

Si parlavano a distanza ieri la giunta militare egiziana e il governo Netanyahu dopo l’assalto all’ambasciata di Israele. «Le forze dell’ordine reagiranno agli episodi di vandalismo con misure ferme e severe e utilizzeranno il loro diritto a difendersi ricorrendo a tutte le regole previste dalla legge d’emergenza», hanno fatto sapere i generali egiziani, garanti da oltre 30 anni degli Accordi di Camp David e alleati di ferro del Pentagono.
E dopo aver respinto le dimissioni del premier (senza poteri reali) Essam Sharaf, hanno ribadito l’impegno dell’Egitto «a rispettare tutti gli obblighi e accordi internazionali compresi quelli per la protezione di ambasciate e di missioni diplomatiche sul suo territorio».
Morbida, oltre ogni previsione, la reazione di Netanyahu all’assalto alla sede diplomatica e alla fuga precipitosa dell’ambasciatore Yitzhak Levanon. «Intendiamo far tornare il nostro ambasciatore al Cairo al più presto, con i necessari accorgimenti di sicurezza», ha assicurato alla radio militare un portavoce del premier israeliano. «È un episodio grave che richiede correzioni», ha detto il portavoce aggiungendo subito dopo che «Israele non accusa l’Egitto…le autorità egiziane hanno superato con successo (la crisi)… tutti i nostri cittadini sono usciti indenni».
La reazione soft di Netanyahu sorprende fino ad un certo punto. Per lui in ballo non c’è soltanto la necessità di salvare i rapporti con un paese confinante che per tre decenni ha dato una mano (e molto di più) a Israele, spesso contro gli interessi dei palestinesi sotto occupazione militare (come la partecipazione al blocco di Gaza). Mostrandosi accomodante il premier israeliano punta ad emergere come un leader ragionevole di fronte alle crisi e alle rivolte che attraversano la regione. In particolare vuole far apparire il premier turco Erdogan e il leader presidente dell’Anp Abu Mazen due «irresponsabili» che, il primo rompendo le relazioni con Israele per le mancate scuse per la strage di nove cittadini turchi sulla nave Mavi Marmara e il secondo decidendo di andare alla proclamazione unilaterale dello Stato di Palestina tra due settimane all’Onu, starebbero gettando nel caos questa parte del Medio Oriente.
In questa ottica i passi decisi da Erdogan e Abu Mazen sarebbero «passi falsi» e non la conseguenza della politica intrasigente di Israele. Il premier israeliano potrebbe raggiungere i suoi obiettivi visto il clima che si è creato. Non tanto quello di ricevere la solidarietà di governi importanti per l’assalto subito dall’ambasciata al Cairo, quanto quello di persuadere diversi paesi a rinunciare ad appoggiare la dichiarazione d’indipendenza palestinese.
Erdogan d’altronde non sembra aver compreso che è in atto, e non da ieri, il tentativo di farlo apparire come un «fanatico leader islamico», un sobillatore turco di masse arabe. Sarebbe stato opportuno misurare le parole e mostrarsi più scaltro, ma il premier turco domani in visita ufficiale al Cairo (poi andrà a Tripoli e Tunisi) arriverà dopo aver affermato che «500 mila egiziani stanno maledicendo Israele». Parole in linea con i sentimenti di gran parte degli egiziani, stanchi della politica di appiattimento sulle posizioni degli Stati uniti, ma che contribuiscono a stringerli intorno il cordone sanitario occidentale, senza peraltro avere ancora ottenuto quelle alleanze strategiche che cerca con i paesi arabi post-rivoluzionari. I giornali turchi scrivono che l’obiettivo del viaggio di Erdogan è quello di avviare rapporti privilegiati con le nuove amministrazioni arabe per giocare un ruolo di punta nella riscrittura del nuovo ordine nell’area, volto a ridurre l’egemonia di Israele. Ma se per l’egiziano comune è un eroe, Erdogan non gode dello stesso status presso i militari al potere nel paese dei faraoni che, infatti, gli hanno imposto di rinunciare alla visita alla Striscia di Gaza sotto blocco israeliano.
Non intende congelare i rapporti con Israele, in alcun caso, il generale Sami Ennan, capo dello stato maggiore delle forze armate egiziane, amico dei principali comandanti militari Usa e leader ombra dell’Egitto in attesa di un passaggio dei poteri ai civili che si allontana ulteriormente. «Le crisi con la Turchia e l’Egitto non mi preoccupano – affermava ieri con tono sicuro Eytan Gilboa, un analista di punta del centro studi strategici “Begin-Sadat” di Tel Aviv – perché Erdogan non riuscirà a convincere gli arabi, anzi la sua strategia volta a stabilire il predominio turco sul mondo islamico in Medio Oriente presto entrerà in conflitto con gli interessi di gran parte dei regimi locali e anche con quelli dell’Iran». A Israele, aggiungeva Gilboa, preoccupa di più la «debolezza di Obama»: «Con un presidente americano diverso, i turchi, gli egiziani e i palestinesi sarebbero rimasti al loro posto».

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da Il Sole 24 Ore

Egitto, dimostranti attaccano l’ambasciata di Israele

È stato dichiarato lo stato di allerta in Egitto dopo gli scontri che hanno fatto seguito all’assalto nella notte, da parte dei manifestanti, dell’ambasciata di Israele al Cairo. Intanto è salito a tre morti e 1.049 feriti il bilancio delle vittime. Lo ha annunciato Hisham Shiha, delegato del minsitero della Sanitá egiziano, in collegamento telefonico con la tv satellitare “Nile News”. Il bilancio comprende i feriti degli scontri avvenuti ieri davanti all’ambasciata israeliana e quelli degli incidenti avvenuti davanti alla sede della sicurezza di al-Jiza.

I disordini erano iniziati ieri, dopo la preghiera del venerdì, quando è esplosa la protesta per l’uccisione da parte degli israeliani di 5 guardie di frontiera egiziane dopo gli attentati di Eilat.

L’ambasciatore israeliano torna in patria
L’ambasciatore israeliano al Cairo e il suo staff, evacuati dall’ambasciata egiziana, dopo l’attacco subito da alcuni manifestanti alla sede dell’ambasciata nella notte scorsa, sono rientrati in Israele, dove sono già atterrati. Lo sostiene un’emittente radiofonica israeliana.Il primo ministro egiziano ha convocato questa notte il gabinetto di crisi per discutere della situazione relativa all’assalto da parte di manifestanti alla sede dell’ambasciata israeliana al Cairo e ai suoi sviluppi. Lo riferisce l’agenzia di stato egiziana.

Il premier Netanyahu: si è evitato un disastro
Per il premier, Benjamin Netanyahu è stato «un grave incidente», che però avrebbe potuto essere «ben peggiore se gli assalitori fossero riusciti a superare l’ultima porta e a ferire le persone». «Sono felice che si sia riusciti a evitare un disastro», ha aggiunto Netanyahu che ha anche voluto ringraziare il presidente Usa, Barack Obama, per il suo aiuto. «Voglio anche congratularmi con gli uomini dell’intelligence che hanno contribuito alle operazioni di salvataggio per il loro eccellente lavoro», ha concluso il premier, citato dal quotidiano israeliano, Yedioth Ahronot.

In una dichiarazione il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak afferma di aver chiesto, in una conversazione con il suo omologo americano Leon Panetta e con l’inviato di Obama Dennis Ross, di «proteggere l’ambasciata dai manifestanti».

Intanto si susseguono in Egitto le indiscrezioni sulla possibilità che il premier ad interim Essam Sharaf abbia presentato questa mattina le sue dimissioni al Supremo Consiglio delle forze armate, dopo l’assalto avvenuto ieri da parte dei manifestanti alla sede dell’ambasciata israeliana al Cairo. Secondo quanto riferisce l’edizione online del giornale egiziano al-Wafd, Sharaf si sarebbe recato questa mattina presso la sede del Supremo consiglio delle forze armate per presentare le sue dimissioni. Lo stesso premier aveva convocato per oggi una riunione d’emergenza del Consiglio dei ministri per discutere delle violenze avvenute ieri nel paese.


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da La Stampa

Questa è la lettura data da un analista “embedded”, un “neocon educato” al contrario di un Luttwak o un Giuliano Ferrara, ma che propaganda la stessa idea: lo “scontro di civiltà” come possibile soluzione alla crisi dell’accumulazione capitalistica.

 

L’incubo della guerra

VITTORIO EMANUELE PARSI

Ci sono molte chiavi di lettura per spiegare quanto è accaduto al Cairo. Ne vorrei proporre una semplice e preoccupante: di fronte al declino dell’egemonia americana in Medio Oriente nessuna forma di stabilità regionale è compatibile con il perdurare del conflitto israelo-palestinese.

Non appena il vento della Primavera araba aveva raggiunto l’Egitto, molti osservatori avevano preconizzato che il crollo del regime autoritario e corrotto di Mubarak avrebbe lasciato il campo libero alle forze islamiste radicali, ostili al Trattato di pace firmato con Israele nel 1979. La dura realtà è che non occorre scomodare la Fratellanza Musulmana per spiegare l‘assalto da parte di migliaia di dimostranti all’ambasciata israeliana, perché quel trattato non è inviso soltanto agli integralisti musulmani, ma a gran parte della popolazione egiziana, che continua a ritenere che la «pace separata» siglata dall’allora presidente Sadat abbia rappresentato un tradimento della causa araba.

Il possibile cortocircuito tra le rivoluzioni arabe – che rappresentano un elemento positivo di dinamismo, capace di porre fine a quei decenni di autismo politico che avevano concorso a generare il terrorismo qaedista di Bin Laden – e l’irrisolto conflitto israelo-palestinese – il cui non superamento ha costituito una micidiale zavorra per il futuro di tutti i popoli della regione – sta proprio in questa «novità» che si prospetta per l’ordine mediorientale: cioè il prevalere nell’equilibrio regionale dei caratteri endogeni rispetto a quelli esogeni.

Un fatto che di per sé sarebbe positivo, se non per una circostanza decisiva: ovvero che senza l’influenza determinante esercitata da un attore esterno, gli Stati Uniti, nessuno stato di quiete (non parlo di pace) è possibile nella regione, perché il potenziale destabilizzante rappresentato da un conflitto che dura ormai da oltre 60 anni e che ha metabolizzato più di un «processo di pace» non trova nessun rimedio. Gli attori regionali hanno capacità sufficienti, semmai, per accrescere gli effetti disordinanti di quel conflitto (si pensi all’Iran o alla Siria), o per esserne risucchiati (si veda la Turchia), ma non per contrastarli e neppure per tenerli semplicemente a bada.

Gli anni colpevolmente perduti nel decennio dei Novanta, e il successivo decennio post 11 settembre, in cui l’omologazione di ogni forma di lotta violenta con il terrorismo e la logica semplicistica e però in un certo senso obbligata della «war on terror» ha fatto se possibile ulteriormente imbarbarire il quadro delle relazioni arabo-israeliane (ripresa delle intifade, recrudescenza degli attacchi contro obiettivi in territorio israeliano, invasione del Libano, invasione e blocco economico di Gaza), ci hanno condotto a una condizione che era di stallo solo grazie alla crescente presenza e influenza americana nella regione. Da oggi, dovrebbe essere chiaro a tutti che una simile condizione non ce la possiamo più permettere.

Venerdì si è così cominciato a profilare quello che dall’inizio dell’anno le autorità israeliane temevano, e che hanno fatto ben poco per cercare di scongiurare. La frustrazione della folla egiziana per la contraddittorietà e la lentezza del processo di transizione democratica si è saldata con la rabbia nei confronti di Israele, per l’impunità di cui sembra godere in virtù della sua relazione speciale con gli Stati Uniti e del cosiddetto doppio standard con cui l’America giudica quel che accade in Medio Oriente. Come ha sostenuto un manifestante intervistato da Al Jazeera : «Obama chiede a noi di rispettare l’incolumità dei cittadini israeliani in Egitto, ma non ha speso una parola per condannare l’omicidio da parte delle forze di sicurezza israeliane di cinque guardie di frontiera egiziane il 18 agosto scorso».

Sono quasi le stesse parole che ha usato il premier Erdogan, a proposito del «silenzio di Obama» dopo che le anticipazioni di stampa sul rapporto dell’Onu – che condanna l’uso eccessivo della forza durante l’assalto alla flottiglia di solidarietà per Gaza nel maggio 2010 (in cui sono stati uccisi diversi cittadini turchi) – hanno portato Ankara ad un passo dalla rottura delle relazioni diplomatiche con Tel Aviv. Come se non bastasse, tra pochi giorni, l’Assemblea generale dell’Onu dovrà discutere della dichiarazione d’indipendenza palestinese presentata dall’Anp.

La prevista opposizione americana (e forse europea) non potrà che essere percepita come l’ennesima provocazione da parte di un’opinione pubblica esasperata. In simili circostanze, il rischio che la regione corra rapidamente verso un nuovo conflitto è tutto fuorché aleatorio, anche a fronte del crescente isolamento di Israele, che in poco più di un anno ha perso i due soli (tiepidi) alleati che aveva nella regione: Turchia ed Egitto. In queste condizioni nessuno, a cominciare da tanti cittadini della democratica Israele, può più permettersi il lusso di ignorare che la sola alternativa a una pace vera sarà l’ennesima, inutile guerra.

 


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