La battaglia mediatica e informatica su quest’importante e tutt’altro che simbolica scadenza sta infiammando il popoloso Paese arabo già diviso dalle polemiche sulla formazione di un’Assemblea Costituente a maggioranza islamica. Timori e compromessi sembrano essere trasversali in una spirale di sospetti fra i numerosi attori. La discesa in campo dell’uomo della finanza islamista ha una lettura agli antipodi. Alcuni sostengono che essa sia un’aperta sfida al ruolo dell’Esercito che, come in Turchia, deve iniziare a piegarsi alla forza islamica che rivendica potere. Le critiche palesi rivolte in molte sedute della Camera Bassa da neodeputati del Partito della Libertà e Giustizia sia a Tantawi sia a Ganzouri, trattato come premier fantoccio, rientrerebbero in questa linea tattica.
L’altra ipotesi parla di un accordo spartitorio. I militari prendono definitivamente atto dell’orientamento maggioritario degli egiziani che ha conferito a due gruppi islamici oltre il 70% del voto e appoggiano, sì di fatto appoggiano, il candidato più significativo. Anche perché i personaggi più noti del diviso fronte laico (Moussa, Shafiq) non offrono garanzie di successo, e l’ipotesi del voto islamico a un secolarista non è mai stata presa sul serio, né il compromesso s’è consumato su un’alternativa moderata come quella di Aboul-Fotouh, osteggiata dalla Fratellanza dopo la recente espulsione del dirigente. Invece l’eminenza grigia della Fratellanza è una calamita. Raccoglie attorno a sé la repulsione verso le nostalgie mubarakiane perché ha trascorso dodici anni nelle galere del raìs. Convoglia l’ortodossia islamista che vale milioni di voti e si specchia nel suo conservatorismo. Mostra uno spregiudicato pragmatismo imprenditoriale che negli affari lo conduce a guardare al sodo, mettendo da parte ogni ideologismo e trattando con tutti oltre la fede. Questo presupposto piace molto all’Occidente e allo staff della Casa Bianca che potrebbero essere stati i suggeritori, neanche tanto occulti, delle nuove tendenze della Giunta.
Del resto nonostante i rumors l’idea di una presidenza dell’uomo dei Servizi Suleiman sembra irreale, non per i sei giorni mancanti alla chiusura delle candidature ma per la possibilità di sostenerla in seguito. Perciò nelle segrete stanze della politica cairota può essersi consumato l’accordo fra il nuovo corso islamico che punta anche alla presidenza e la conservazione di molti dei privilegi tuttora goduti dai militari. Un esponente storico della Fratellanza qual è Saad Emara, intervistato domenica dalla stampa locale, sostiene che il movimento riconosce all’Esercito un ruolo specifico nella difesa nazionale e un controllo della sicurezza interna, previa naturalmente trasparenza e democrazia. La politica – che per l’esponente musulmano ha l’immagine del suo partito di maggioranza – è invece rivolta alla riorganizzazione della vita civile, a educazione, servizi, incremento dell’economia. Una divisione dei compiti che sancisce una spartizione di competenze senza colpo ferire e sceglie un candidato forte che i laici non sanno offrire alla lobby delle mostrine. Forse perché si sente già escluso dal rush finale l’ex potente segretario della Lega Araba Amr Moussa in un personale intervento mette in guardia gli elettori da derive confessionali sostenendo che, al di là del potere finanziario di Al-Shamer, quello che si prospetta con la sua candidatura è un potere religioso. “Il vero presidente egiziano sarebbe Mohammed Badie”, che è l’Ottava Guida dei Fratelli Musulmani. A metà fra la congettura e il veleno questo timore potrebbe cementare l’Egitto secolare che appare forte nel rifiuto di Facebook. Ma le urne, come s’è visto da novembre a febbraio, sono altra cosa.
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