* Foreign Policy (traduzione di Eleonora Vio per Nena News)
Il sultano Al Qassemi, commentatore e prolifico utente di Twitter originario degli Emirati Arabi Uniti, scherza sul suo tentativo di postare ogni giorno un articolo sulla crescita del Qatar, quel piccolo sceiccato del Golfo Persico al centro della Primavera Araba. C’è una formula precisa, sostiene. All’incirca tutti gli articoli esprimono gli stessi punti: il Qatar è piccolo, ricco, sede dei Mondiali di Calcio 2022, finanziatore del canale satellitare pan-arabo Al Jazeera, incitatore delle proteste diffuse nel mondo arabo – seppure difficilmente democratico in casa propria.
Spesso i titoli si avventurano in vere e proprie iperboli: The Economist ha chiamato il Qatar “Il pigmeo dal pugno da gigante” mentre il New York Review of Books ha acclamato il suo “strano potere”. Varie testate hanno soprannominato il 60enne emiro a capo del paese, Sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani, “l’Henry Kissinger arabo.” Lo scorso anno, a microfoni spenti e alla presenza di donatori politici, il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama l’ha definito, “un tipo piuttosto influente.”
E’ indubbio che i reali qatarini abbiano investito la straordinaria ricchezza del piccolo paese nell’acquisire un’influenza crescente, sfrecciando da una zona di conflitto all’altra e invitando dissidenti e diplomatici nella capitale, Doha, per dare consigli non richiesti, per negoziare, o per complottare l’uno contro l’altro – di solito allo Sheraton, hotel dalla forma piramidale risalente agli anni ’80 che sovrasta la corniche puntellata da palme. (Si pensi a una scena da bar alla Star Wars pensata per un pubblico del Golfo con paracadutisti francesi che gironzolano mentre i ribelli del Darfur in djellaba (tunica musulmana tipica degli stati africani) sorseggiano del tè in compagnia di dirigenti petroliferi occidentali nella hall dell’hotel torreggiante.) Nell’ultimo decennio, protetto dalla base area statunitense più grande al mondo, il Qatar si è inserito nei conflitti scoppiati in Afghanistan, Etiopia, Iraq, Israele, Sudan, Siria e Yemen, posizionandosi come mediatore disinteressato, fidato – o per lo meno tollerato – da tutti i partiti in gioco.
Aiuta certamente il fatto che ha poco di cui preoccuparsi a casa. Il Qatar è il più ricco paese del pianeta, con i suoi 250,000 cittadini nativi che galleggiano confortabilmente in un PIL pro-capite stimato sui $400000 l’anno. Un altro milione e mezzo di lavoratori ospiti fatica nei suoi mastodontici progetti di costruzione e all’interno dei copiosi centri commerciali, mentre un piccolo gruppo di espatriati arabi o occidentali compila i documenti di lavoro e fa sì che ‘i treni scorrano sempre puntuali’. Dai sondaggi di opinione si evince che i qatarini hanno poco interesse nell’attuare riforme politiche, e non c’è da sorprendersi: a parte il fatto che devono vivere nella non esaltante Doha – un polveroso e torrido inferno per metà dell’anno – la vita per loro non è malaccio.
Fino al 2011, l’emiro sembrava essere soddisfatto dal suo ruolo da mediatore, sebbene la copertura da parte di Al Jazeera in ambito politico (dovunque al di fuori del Qatar e del Golfo, ovviamente) avesse talvolta irritato i suoi compagni autocrati arabi. La sua influenza è sicuramente aumentata nel momento in cui i capi di governo del potere tradizionale della regione, quali Egitto e Arabia Saudita, hanno cominciato a rimbambirsi. Ma le ambizioni di Sheikh Hamad hanno spiccato ulteriormente il volo nel momento in cui lo scorso anno il suo popolare canale satellitare si fece incontrollabile simpatizzante delle rivolte in Egitto, Siria, Tunisia e Yemen (ma non del confinante Bahrain), mentre la minuscola armata qatarina si è è unita alle rappresaglie contro il tiranno libico Muammar al-Qaddafi. Perfino i potenti Stati Uniti cominciarono a rivolgersi al Qatar come potenza in grado di coinvolgere la Lega Araba e il suo programma in continua trasformazione – una tornata non da poco giacché Washington, per lungo tempo, aveva associato il Qatar ad Al Jazeera, famosa per il suo livore anti-americano e i cruenti filmati attribuiti ad al-Qaeda.
Questo è materiale indubbiamente esaltante per quel piccolo “pollice” che emerge dalla compatta Penisola Arabica, come una volta Qaddafi descrisse il Qatar. Dopotutto, il paese è poco più di una città-stato di ampiezza pari al Connecticut, circondato da dei vicini armati fino ai denti. Nella sua personale ricerca di colmare un vuoto – ignorando i suoi punti deboli – l’emiro si è spinto alla fine troppo in là?
Per gran parte della sua breve storia, il Qatar è stato un ripensamento di un ripensamento all’interno della politica globale, un ambiente isolato e impoverito spesso preda dei piani di potenze più forti: dalla lotta britannica contro i turchi ottomani per il controllo del Golfo Persico nel 19° secolo alla crescita della wahabita Arabia Saudita nella porta affianco nel 20° secolo. Parimenti ad altri capi di piccoli stati, la famiglia al-Thani ha una certa abilità nel sopravvivere, a volte placando i vicini più grossi del Qatar, altre volte irritandoli e cercando una qualunque protezione esterna, come quando il Qatar fece costruire la gigantesca e costosissima base aerea statunitense al-Udeid nel 1996, anticipando la chiusura di una simile piattaforma americana in Arabia Saudita – questo ancor prima che l’emirato avesse una forza aerea sua personale.
La scoperta del petrolio nel 1940 permise alla famiglia Al Thani di plasmare le autoctone tribù in lotta e i pescatori di perle in un piccolo stato incredibilmente ricco. Non fu fino al 1995, quando Sheikh Hamad rovesciò suo padre in un colpo di stato non cruento, che il Qatar cominciò a subire un’evoluzione da piccolo fazzoletto desertico a potenza vera e propria, sia all’interno della regione che al di là dei suoi confini. Sotto Hamad il Qatar è diventato un potere espansionista, una sorta di Venezia dei giorni nostri – l’unica differenza è che la sua forza non risiede nel commercio o nel valore marittimo ma nel flusso di gas naturale. In questo, il Qatar è stato molto più che meramente fortunato. Infatti, ha fatto grandi e avventate scommesse sulla crescita del gas naturale liquefatto e ha reinvestito i profitti in giganteschi progetti d’infrastrutture a casa propria e in patrimoni dall’ineguagliabile valore all’estero, come Harrods a Londra e la squadra di calcio francese Paris Saint-Germain. Alla fine, il governo si augura che il cospicuo fondo sovrano di 85 milioni di dollari sia in grado di finanziare le sue operazioni in eterno.
Tutto il denaro derivato dal gas ha fatto di Doha un improbabile centro d’intrighi politici, una sorta di Baia delle Tartarughe del Golfo Persico. Ho vissuto in Qatar per poco più di un anno, fino al dicembre scorso, e la città mi ha offerto una poltrona in prima fila nel momento in cui la Primavera Araba si è dispiegata – e molto spesso diretta, sembrerebbe, proprio da Doha. In ottobre mi sono recato a Souq Waqif, un mercato dallo stile disneyano in prossimità della corniche cittadina, per prendere parte ai festeggiamenti locali in onore degli espatriati libici. Il souq era drappeggiato con striscioni inneggianti al trionfo dei ribelli su Qaddafi, che era stato appena sommariamente giustiziato e messo in mostra grottescamente all’interno di un vano porta-carne. Il picco della festa – una sorta di miscuglio tra il pogare con foga e il ballare a ritmo di danze libiche con l’accompagnamento dell’inno rivoluzionario “Alza in alto la testa, sei un libico libero” – si era spinto oltre secondo le autorità, ed è stato perciò sostituito a metà da una danza tradizionale qatarina caratterizzata dall’uso di spade tradizionali.
Per mesi Doha ha fatto squadra con gli esuli libici, finanziati non tanto segretamente dal Qatar stesso, sistemandoli in costosi alberghi e foraggiando il loro canale satellitare. Jet cargo qatarini hanno traghettato decine di milioni di aiuti umanitari, armi e truppe addette ad operazioni speciali nei quartieri generali dei ribelli a Benghazi; all’incirca l’intera forza aerea qatarina ha aiutato a rafforzare la no-fly zone messa in atto dalla NATO. In agosto, quando i ribelli libici hanno preso d’assalto il complesso Bab al-Aziziya di Qaddafi hanno alzato una bandiera qatarina in segno di apprezzamento. Alla domanda postagli da Al Jazeera, su quanto il Qatar avesse investito nella rivoluzione libica, il primo ministro ha detto semplicemente: “Tantissimo. Ci è costata tantissimo.”
Il Qatar ha insistito che il suo unico interesse in Libia era la libertà del popolo libico. Ma una reazione nazionalista ha fatto seguito alla presunta intromissione qatarina nelle questioni libiche. Abdel Rahman Shalgham, il precedente ambasciatore ONU di Qaddafi il cui distacco ha contribuito a sigillare il destino di Qaddafi stesso, apparve sullo schermo a denunciare il Qatar come una forza aliena e maligna. “Il Qatar potrebbe illudersi di essere alla guida dell’intera regione,” disse in quell’occasione. “Ma io non accetto assolutamente la sua presenza.” Gli alleati secolari del Qatar sono stati presto allontanati dal governo di transizione, mentre il suo principale referente islamista in Libia, Abdel Hakim Belhaj, fu detenuto e umiliato all’aeroporto di Tripoli dalle milizie rivali. A un anno di distanza è difficile capire cosa il Qatar ci abbia guadagnato dall’esperienza nord-africana.
Se la Libia ha rappresentato l’apoteosi della potenza qatarina, la Siria rappresenta tutti i suoi limiti. Più di un anno dopo l’inizio della rivoluzione, i siriani stanno ancora sfidando i proiettili come segno di protesta contro il governo di Bashar al-Assad – e reagendo coseguentemente con i pochi in loro possesso. Per il momento tutti i tentativi esterni di fermare il conflitto pacificamente sono falliti, e sono sfumati pure gli sforzi, rappresentati dal Qatar in testa, di formulare una soluzione diplomatica. Se Assad sopravvive, il Qatar si sarà inimicato il più grande fan del regime siriano, cioè l’Iran, con il quale condivide la più ampia riserva di gas del mondo e mantiene ufficialmente rapporti amichevoli, che rischiano di essere però compromessi.
Nel frattempo, perfino i siriani opposti al governo si lamentano che la copertura data da Al Jazeera del conflitto è diventata poco professionale – stucchevole, di parte, e spesso non affidabile. Ali Hashem, un accreditato reporter di Al Jazeera, ha dato le dimissioni a marzo, dichiarando che i suoi servizi sui combattenti armati erano stati accantonati per lasciar spazio alla narrativa ufficiale inneggiante alla resistenza pacifica. Il fatto che a dirigere il canale ci sia ora un membro della famiglia reale qatarina, sostituitosi a Wadah Khanfar che ha rinunciato al suo ruolo pluridecennale, ha fatto perdere al canale credibilità e indipendenza.
La Siria non fa eccezione. Qualunque mezzo mediatico si consideri, sono state molto poche le iniziative diplomatiche del Qatar che hanno portato a qualche frutto. La risoluzione politica del Libano del 2008, sancita in Qatar, emerge come un raro episodio di successo, gli altri rimangono irrisolti. Nel maggio 2011, il Qatar ha levato le tende di fronte agli sforzi di raggiungere un accordo di pace in Yemen, mentre il Bahrain nello stesso mese ha accantonato l’offerta qatarina di mediare il suo conflitto interno. Doha si è resa volontaria per ospitare i negoziati di pace tra Stati Uniti e talebani, volti a risolvere una guerra decennale in Afghanistan, ma i talebani non hanno ancora inaugurato il loro ufficio lì e il Congresso americano ha bloccato uno scambio di prigionieri che avrebbe potuto costruire confidenza per nuove negoziazioni. L’accordo sul Darfur, firmato allo Sheraton dopo più di un anno, non ha nemmeno incluso tutti i partiti in lotta. Pure i promettenti sforzi qatarini di allontanare Hamas dall’Iran non gli hanno guadagnato nessuna simpatia dai vicini: un recente incontro tra i leader arabi a Riyadh, focalizzato sull’Iran, ha escluso di proposito Sheikh Hamad, diffidato per i suoi semi-calorosi rapporti con Tehran.
Nemmeno la mucca da mungere qatarina – il gas naturale – è in una botte di ferro. Un eccesso di rifornimento globale ha fatto sì che i prezzi siano crollati vertiginosamente. L’Australia potrebbe sorpassare il Qatar nella produzione del gas naturale liquefatto, e la rivoluzione del gas di scisto negli Stati Uniti e nell’Europa dell’Est (senza menzionare posti fuori mano come il Mozambico e potenziali nuovi giocatori come la Libia) minaccia di prolungare il periodo nero del mercato.
Per quanto riguarda la Coppa del Mondo, probabilmente il fiore all’occhiello dell’ascensione del Qatar nell’esclusivo partito dei paesi vincenti, non è per niente chiaro se Doha si crogiolerà nella sua gloria calcistica tra un decennio. Non solo si sono sollevate molte domande a proposito della fattibilità o meno dell’ospitare un torneo a temperature che raggiungono i 120 gradi Fahreneit in estate, della limitata disponibilità di alcool, e del design rischioso, volto a placare il calore esterno, degli stadi del Qatar, ma anche la FIFA, il corpo internazionale a capo delle questioni calcistiche, potrebbe lanciare un’investigazione per verificare le accuse che vedono ufficiali qatarini nella veste di estorsori, per accaparrarsi la vittoria alle selezioni. Ad ogni modo, il Qatar ha bisogno di importare milioni di tonnellate di materiali grezzi – tra le tante cose, anche la sabbia dall’Arabia Saudita – per rendere la Coppa del Mondo un successo. Ciò darà ai sauditi, con la loro politica estera alquanto retrograda e una lunga storia di incursioni nella politica qatarina, la capacità di fare pressione negli anni a venire.
In virtù di tutto questo, mettiamo da parte le onorificenze per il Qatar. C’è un motivo per cui la maggior parte delle città-stato nel corso della storia ha evitato di provocare i vicini più grandi – presto o tardi costoro colpiranno indietro. Essere incredibilmente ricchi non è forse abbastanza?
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