Può essere dunque che non sia la Grecia a uscire dall’euro, ma la Germania? Piano con la fantasia, ma certo Berlino continua a giocare rigorosamente per conto suo per quanto riguarda la “crescita”, mentre catiga il resto d’Europa con il “rigore”. Alla lunga la corda rischia di spezzarsi, come illustrava pochi giorni fa anche Joshka Fisher.
Se Berlino sposa PechinoMichelangelo Cocco
PECHINO«Oggi i tedeschi possono ottenere prestiti allo 0,01% mentre gli altri pagano il 6%. Di questo passo però non ci sarà più un mercato europeo per i prodotti tedeschi, perché gli altri non avranno i mezzi per comprarli». La profezia lanciata la settimana scorsa dal presidente del Parlamento europeo Martin Schultz non preannuncia una catastrofe per la Germania, soprattutto se letta assieme all’ultimo documento dello European council on foreign relations (www.ecfr.eu) sulla «relazione speciale» che Berlino – da sola, non come membro dell’Unione europea – sta rafforzando con Pechino.
Tra i paesi dell’Ue, la Germania è il primo partner commerciale della Cina: la metà delle esportazioni europee nella Repubblica popolare proviene dalla Repubblica federale e tra 1/4 e 1/3 dell’export di Pechino verso l’Ue finisce in Germania. Una crescita vertiginosa dell’interscambio commerciale – soprattutto di quella delle esportazioni tedesche in Cina – che nell’ultimo decennio, secondo lo studio «China and Germany: why the emerging special relationship matters for Europe» ha superato qualsiasi aspettativa, tanto che presto la Repubblica popolare potrebbe scavalcare Stati Uniti e Francia, diventando il primo mercato di sbocco del made in Germany.
Gli estensori del rapporto sottolineano che «i cinesi si rivolgono sempre più all’Europa attraverso la Germania, invece che tramite gli organismi di politica estera istituiti dal Trattato di Lisbona». La Germania, secondo gli studiosi, è naturalmente proiettata verso l’Europa ma «i funzionari sono frustrati dal fallimento dei loro tentativi di sviluppare un approccio strategico comune europeo nei confronti della Cina e ritengono che non possono più aspettare».
Un anno fa si è svolto il primo vertice intergovernativo tra i due stati, un privilegio che fino ad allora la Germania aveva riservato solo a Francia, Israele e India. Tra la locomotiva industriale del Vecchio continente e la seconda economia del Pianeta le relazioni commerciali sono salde da decenni, ma è stata la crisi economica del 2008 a fornirgli un nuovo, inedito impeto: l’economia tedesca, fortemente orientata verso le esportazioni, è andata a nozze col programma di stimolo (oltre 400 miliardi di euro d’investimenti in infrastrutture e welfare) varato tre anni fa dal governo cinese. E ora, col crollo della domanda nei paesi dell’Ue, Berlino si scopre sempre più dipendente dalla Pechino.
Secondo i dati forniti nelle ultime settimane dall’ambasciatore tedesco a Pechino, Michael Schaefer, gli investimenti della Repubblica federale in Cina ammontano a 21 miliardi di euro mentre quelli cinesi in Germania a 600 milioni di euro. Il mese scorso, durante sua visita ufficiale in Germania, il premier cinese Wen Jiabao ha indicato l’obiettivo di raddoppiare l’interscambio commerciale entro il 2015, portandolo a 280 miliardi di dollari.
Il rapporto dello Ecfr definisce quella tra le due economie una «simbiosi quasi perfetta», dal momento che «i consumatori cinesi vogliono prodotti tedeschi di alta qualità, come le automobili, e le aziende cinesi hanno bisogno dei macchinari tedeschi».
Degli oltre 5milioni di veicoli a motore in circolazione a Pechino una gran parte è costituito da Volkswagen, Bmw, Audi, Porsche e Mercedes. E tra i due paesi è stato appena siglato un accordo per l’apertura di un grande stabilimento Volkswagen nello Xinjiang, la regione del nord-ovest della Cina ai margini dell’Asia centrale.
La «simbiosi» però non esclude futuri conflitti, perché le merci cinesi – che mirano a compiere un «balzo in avanti» tecnologico – potrebbero entrare in competizione con quelle tedesche. Il campanello d’allarme è suonato il mese scorso, quando la tedesca Q-Cells (pannelli solari), schiacciata dalla concorrenza cinese, ha dichiarato fallimento.
E quella parte delle riserve cinesi di valuta estera che ci s’illudeva potesse acquistare bond dei governi europei in crisi debitoria o alimentare il fondo «salva Stati» Efsf? È finita nei bund tedeschi, molto meno redditizi ma immensamente più sicuri dei titoli concorrenti. Il perché, secondo i ricercatori, è presto detto: «Con la crisi sullo sfondo, i membri del governo e gli analisti cinesi vedono una Germania sempre più potente, una Francia indebolita e una Gran Bretagna isolata».
Lo studio lo sottolinea nelle sue conclusioni: è stata l’incapacità dell’Unione europea di sviluppare una «partnership strategica» con la Cina a convincere i tedeschi – che «sentono che per loro la posta in gioco è altissima» – che non potevano più aspettare l’Europa».
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