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La Palestina stato «osservatore» Onu scompare dall’agenda

È trascorsa una settimana dalle legislative israeliane e dell’esito del voto e della prossima coalizione di maggioranza si parla ben poco. L’agenda israeliana è subito tornata ai temi abituali degli ultimi due anni: programma nucleare iraniano e armi chimiche siriane che potrebbero «cadere in cattive mani». D’altronde il premier uscente (e futuro) Netanyahu ha messo in chiaro più volte, l’ultima domenica scorsa, che a lui serve una maggioranza per «affrontare» le sfide che attendono Israele nel prossimo futuro.

Così è tornato il clima da guerra imminente, con i giornali che riferiscono compiaciuti di «misteriose» esplosioni nella centrale atomica iraniana di Fordo e del dispiegamento di batterie antimissile nel nord del paese. Passano in secondo piano anche cori e striscioni razzisti dei tifosi del Beitar Gerusalemme contro i dirigenti del club intenzionati a mettere sotto contratto calciatori ceceni di fede islamica.

La Palestina resta la grande assente dal dibattito israeliano. A due mesi dal voto che lo scorso 29 novembre ha sancito l’ingresso dello Stato di Palestina all’Onu con lo status di osservatore, la questione è rimossa anche dall’agenda internazionale. Grazie alla disattenzione dei governi occidentali, così solleciti nel dare voto favorevole alla Palestina «osservatore» all’Onu quanto fulminei nel chiudere nel cassetto l’aspirazione dei palestinesi ad uno Stato indipendente e sovrano sul terreno. Proprio mentre il governo israeliano ha approvato la costruzione di migliaia di appartamenti per coloni nei Territori occupati.

D’altra parte gli stessi vertici palestinesi dell’Olp e dell’Anp stanno facendo ben poco per passare dalla simbologia ai fatti concreti, nonostante i comitati popolari palestinesi abbiamo dimostrato – con i villaggi di tende di al Karama e Bab al Shams – la volontà di portare avanti iniziative (non violente) per sfidare l’occupazione israeliana nelle aree più delicate della Cisgiordania. Accade perciò che mentre Olp e Anp ordinano timbri con la dicitura «Stato di Palestina», stampano nuova carta intestata e si preparano ad emettere francobolli con i simboli dello «Stato», la Palestina entrata alle Nazioni Unite non abbia un dollaro in cassa.

A causa (ma non solo) del blocco dei fondi palestinesi da parte di Israele come ritorsione per il voto del 29 novembre. A livello internazionale la rappresaglia non ha generato reazioni apprezzabili. Nelle capitali europee evidentemente si ritiene legittimo il diritto di Israele di impedire all’Anp di pagare gli stipendi ai dipendenti, lasciando senza reddito decine di migliaia di famiglie in Cisgiordania. Si è rivelato peraltro una barzelletta il «fondo di protezione» da 100 milioni di dollari al mese promesso ai palestinesi dai «fratelli arabi» per aggirare le ritorsioni di Israele. I dipendenti dell’Anp, in sciopero a singhiozzo, hanno ricevuto metà dello stipendio di novembre. Da allora non hanno più visto un centesimo. La rabbia dei lavoratori nasce anche dalla constatazione che il presidente Abu Mazen e il governo di Salam Fayyad non avevano predisposto, prima del voto all’Onu, contromisure adeguate a sostenere il peso della prevedibile rappresaglia di Israele e l’inconsistenza delle promesse arabe. «La tragica verità è che l’esecutivo palestinese non si è preparato per questa situazione», si lamenta l’economista Nasser Abdel Karim. Eppure nella Muqata di Ramallah, quartier generale dell’Anp a Ramallah, si lavora sui simboli. Si stampano nuovi passaporti che non avranno alcun valore perché le frontiere sono saldamente controllate da Israele, nuovi documenti di identità, nuove patenti di guida e targhe automobilistiche. «Voglio uno Stato vero – spiega Amr Abdel Hadi, un autotrasportatore – non mi serve una nuova targa se poi soldati e poliziotti mi fermeranno ad un posto di blocco e non mi lasceranno passare»

da “il manifesto”

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