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Kenawi “Il danno maggiore della dittatura è aver rovinato le anime”

L’Ufficio Culturale Egiziano di Roma per ricordare la rivolta del 25 gennaio 2011 ha proiettato il documentario “Lo spettro della tirannia” girato nel 2010 in Romania dal regista Mohamed Kenawi. Il film stabilisce un parallelo fra i regimi dei due Paesi. Abbiamo intervistato l’autore.

Signor Kenawi perché la dittatura familiare di Ceausescu le ricordava quella di Mubarak?

Perché i due, come pure Ben Ali, Saleh o tornando indietro Hoxha in Albania, si somigliano. Tutti i dittatori hanno tratti comuni. Quand’ero in Romania per le riprese parlando con le persone mi sono sentito dire: ma tu odi Ceausescu più di noi? Rispondevo: non odio lui come persona ma il suo comportamento e i drammi che ha prodotto.

In fondo a Mubarak pare sia andata meglio, gli egiziani sono un popolo buono?

Non è detto. Ci sono tanti che ancora dicono: dovevamo fare come in Libia uccidere il raìs e farla finita. Oppure esiliarlo com’è accaduto a Ben Ali, quelle soluzioni hanno chiuso i conti con un pezzo di passato.

In Egitto questi conti sono davvero chiusi? L’inquietante presenza di personaggi e apparati del vecchio regime non stabiliscono una continuità oltre Mubarak, un po’ come avvenne per il colpo di mano di Iliescu contro il vecchio presidente?

Sulle cosiddette Primavere arabe ho un personale punto di vista. Credo ci sia stata una regìa nell’ondata di proteste. Una regìa occidentale, americana in primo luogo. Non è possibile che ovunque scoppiassero rivolte, queste hanno fornito la scintilla del cambiamento esattamente come accadde in Romania dove non ci fu una rivoluzione ma, come lei ricorda, una specie di golpe per abbattere Ceausescu. Nel mio Paese una delle prove di quel che dico è la morte di tanti giovani colpiti da cecchini con armi fuori ordinanza. Di questi omicidi nessuno ha finora pagato né pagherà. I processi intentati ai responsabili politici e militari hanno condannato Mubarak, Al-Hadly ma nessun ufficiale presente in piazza e nessun esecutore. L’intento era colpire i simboli per accontentare la gente.

La Securitate impauriva i rumeni come faceva l’Amn Al-Dawla del raìs?

Proprio così. Quegli apparati possono considerarsi speculari. In Egitto non c’era un imam che poteva assumere il ruolo senza ricevere il consenso di Amn Al-Dawla. Non esisteva un laureato che poteva entrare in apparati pubblici o privati senza il benestare di quella struttura. Durante i miei studi abitavo in un ostello del Cairo perché ero universitario fuori sede, scoprii con disappunto che diversi colleghi fornivano informazioni ad agenti dell’Amn Al-Dawla. Notizie su di noi, sulle abitudini, sul modo di pensare e agire. Eravamo contornati da spie che ricevevano trattamenti di favore negli studi e anche denaro per quel “servizio”. Non ho mai saputo quanti fossero, si diceva moltissimi (prima dello scioglimento ufficiale di quell’apparato del Ministero degli Interni, avvenuto il 15 marzo 2011, si calcolavano 100.000 solo fra gli agenti, ndr). Ne scoprimmo uno che era cieco, talvolta si creava degli scrupoli e ci “suggeriva” di non andare in certi posti. Non era una carogna, a suo modo ci aiutava.

Ritiene che gli egiziani si sentano bloccati e inerti come accade ancor’oggi a tanti rumeni?

La popolazione continua ad avere timore. La gente non dice tutto, ha paura delle ritorsioni personali. Ricordo nei giorni delle manifestazioni a Tahrir quando chiamavo mia madre per avere notizie lei mi ripeteva: figlio mio non telefonare, non parlare. Aveva un’enorme paura.

Nelle testimonianze che ha filmato traspare il concetto di “doppiezza” cui i cittadini erano costretti sotto il regime di Bucarest, pensa che anche molti egiziani manifestino simile schizofrenìa?

Sì, il fenomeno c’è anche da noi e non solo per timore dello Stato. E’ diventato un tratto caratteriale molto diffuso fra la gente. Ad esempio in un posto di lavoro è facile trovare persone che si mostrano disinteressate di politica e questioni sociali, poi di nascosto vanno dal capo e riferiscono punti di vista altrui. Non sono spie di mestiere, diventano informatori zelanti e tutto ciò alimenta e conserva un clima di sospetto. Poi ci sono i peggiori, teste vuote e malvage che vendono prestazioni subdole o criminali. Sono i baltagheya che tutti hanno visto all’opera in tante circostanze, prezzolati non solo nell’uso della violenza. Sono pagati da ricchi magnati che vogliono conservare l’Egitto del passato dove poter fare denaro e cingersi di privilegi. Purtroppo questi capitalisti trovano marmaglia senza scrupoli che ne asseconda progetti assassini ed eversivi.

Altri tratti presenti nelle generazioni rumene dai quaranta in su sono sfiducia e disillusione. All’inizio questi sentimenti la Primavera egiziana non li manifestava e non solo fra i ventenni.

Certo in Egitto non tutto il popolo è sfiduciato. Sicuramente non lo sono i tanti giovani. Dovremo però riflettere su quel che è accaduto da noi per molti decenni, anche ai tempi di Sadat e Nasser. La subordinazione al potere ha rovinato carattere e personalità degli individui. L’egiziano medio attanagliato dalla paura ha assunto per proteggersi comportamenti ipocriti. Per garantire a sé e alla famiglia pane e futuro si sono accantonati princìpi morali, ora cambiare è molto, molto difficile. Se anche gli angeli scendessero dal Cielo per formare un governo non tutto andrebbe bene. In primo luogo devono cambiare le anime delle persone. Il danno maggiore della dittatura è aver rovinato le anime.

Oggi i giovani rumeni inseguono il mito del denaro, il modello capitalista rende felici pochissimi e lascia una maggioranza della popolazione incapace di sognare. E’ così anche in Egitto?

L’individualismo della ricerca di denaro è un tutt’uno col cinismo e la disponibilità a ogni nefandezza. Lo smarrimento fa guardare anche indietro, parecchi che nel febbraio 2011 festeggiavano ora quasi rimpiangono i tempi di Mubarak. Dicono: all’epoca si lavorava, le fabbriche erano aperte, c’era il gas, la luce non subiva continui black out. E’ un misto di verità e luoghi comuni, soprattutto c’è il timore d’un futuro non chiaro. Occorre cambiare innanzitutto lo spirito delle persone. Ricordo una storiella che girava quand’ero ancora al Cairo. Domanda: qual è la soluzione per una vita migliore in Egitto? Risposte: 1. la morte di Mubarak 2. evitare la successione del figlio 3. sciogliere la polizia 4. un’atomica cancella il Paese e si ricomincia da zero. Quasi tutti gli interpellati sceglievano l’ultima ipotesi. S’è parlato di mubarakiani, gli amici riciclati del raìs, politicamente questo fenomeno esiste. Ma si dovrebbe considerare anche il mubarakismo che è in ogni egiziano, un fenomeno a catena che conduce chi subisce l’ingiustizia, pubblica o privata, di un superiore a rivalersi su chi gli sta gerarchicamente sotto. Si tratta dell’estensione all’infinito del sistema coercitivo, un processo perverso attuato dal padrone sul dipendente, dall’uomo sulla donna, dal fratello maggiore sui minori. I deboli, gli ultimi pagano sempre.

young mubarak

Ceausescu parlava di comunismo e prometteva un benessere che i rumeni non hanno mai conosciuto, Nasser prospettò un sistema socialisteggiante che riscattasse le ruberie coloniali. I tradimenti e i fallimenti del laicismo socialista hanno aperto la strada all’attuale supremazia dell’Islam politico?

Forse sì. L’Islam politico dice: abbiamo provato ogni tipo di sistema dateci la possibilità di provare il nostro, non so quanto la popolazione gli crederà. In realtà i partiti islamici fanno meno promesse perché nella religione c’è già il riferimento a una vita migliore secondo i canoni della fede. La Fratellanza Musulmana propaganda una rinascita della nazione e degli individui. Finora non s’è visto nulla sebbene i loro elettori sostengano come il periodo di governo sia stato breve per esprimere bocciature definitive.

Il suo documentario, girato nel 2010, s’è rivelato profetico per la sua nazione. Quando ne girarerà uno al Cairo che ricordi la dittatura di Mubarak?

Magari lo farò. Però i tempi non sono maturi per il tipo di lavoro che m’interessa. Ho visto i film di certi colleghi sulla rivolta di Tahrir che sono assolutamente superati, non cronologicamente ma nell’essenza. Non voglio fare film che vivono solo due mesi, i miei progetti cercano di scavare e approfondire.

Più d’un artista egiziano teme possibili censure governative alla libertà d’espressione e alla vena creativa. Qual è il contributo che l’arte può offrire al Paese che si rinnova?

Uno delle attuali atteggiamenti, diciamo una sorta di moda, che ricorre in Egitto è essere “rivoluzionari”. Pare sia diventata una professione. Io ritengo che si può esserlo continuando il proprio mestiere, nel mio caso fare film, per altri fare il pane, coltivare la terra, fare il medico insomma mi sono spiegato. In Egitto ci sono state censure nell’informazione che in qualche caso proseguono, non mi risulta che ce ne siano sul versante creativo. Non difendo il regime iraniano ma nonostante il controllo che stabilisce sui comportamenti dei cittadini la produzione cinematografica di quel Paese è di valore grazie al lavoro che i registi, pur con punti di vista diversi, compiono. Ne conosco alcuni che non amano affatto la teocrazia però lavorano lì e trovano argomenti per vere opere d’arte. Talvolta le idee e le capacità superano ogni ostacolo, l’importante è averne. L’arte aiuta sempre a rinnovarsi. Il cinema egiziano più che la censura deve temere la mediocrità.

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Mohamed Kenawi nasce in Egitto nel 1972. Laureato in lingua e letteratura italiana presso l’università di “Ein Chams” al Cairo, dal 2000 vive in Italia. Nel 2002 si diploma in regia e montaggio presso la Scuola di cinema a Roma. Dal 2003 al 2006 è assistente producer presso il canale satellitare Orbit a Roma. Dal 2006 fondatore e regista della Domino film. Come autore, produttore e regista ha realizzato documentari girati in varie zone del mondo, tra cui Vaticano, Bosnia, Albania, Macedonia, Romania e ovviamente Italia e Egitto. Il documentario “Lo spettro della tirannia” è stato diffuso da Aljazeera. Dice di sé: Vengo dal Medio oriente e vivo in Occidente, ma non mi definisco mediorientale né occidentale. In realtà mi sento straniero in tutte le due zone. Non è un aspetto negativo, anzi mi dà la libertà di guardare, meditare, commentare, criticare e ammirare quel vedo senza essere legato o costretto a difendere nessuno”.

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Enrico Campofreda, 12 febbraio 2013

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2 Commenti


  • Luciano

    questo artista egiziano dimostra di avere le idee estremamente confuse: paragonare Mubarak a Ceauscescu è del tutto assurdo: in Romania la “rivolta” fu solo una messa in scena mediatica (ad eccezione della città di Timisoara, dove ci furono agitazioni mosse da spinte di carattere locale). In Romania c’era un regime collettivista che garantiva lavoro a tutti, ora invece i rumeni sono costretti a emigrare perchè in patria hanno perso tutto, queste cose le sa il signor Kenawi? Vada a intervistare una badante o un elettricista rumeno qui in Italia, altro che “libertà”! Ma lui è un “artista”: per lui la libertà ha un sapore molto diverso da quello che sentono le badanti o gli elettricisti…
    Lui grida: abbasso i tiranni! giusto, ma Mubarak era proprio un tiranno o semplicemente il funzionario locale dell’imperialismo americano che eseguiva col massimo scrupolo le direttive di Washington, compresa l’ultima che gli ordinava di fare fagotto?


  • Mohamed Kenawi

    Caro Luciano,
    Buono giorno.. sono il regista egiziano di cui parli.
    Rispetto il tuo punto di vista e ti confermo che è anche il mio a proposito.
    Ti invito a vedere il film della Romania di cui si parla e poi continuiamo il discorso ed i commenti se vuoi.
    Ti mando il link del film che è in lingua originale e con sottotitoli in inglese e se vuoi la versione italiana, fammi sapere e io ti la faccio vedere:
    http://www.aljazeera.com/programmes/aljazeeraworld/2012/10/2012108112728441748.html

    Tanti saluti
    Mohamed

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