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Videla, la faccia discreta della perversione


Il pugno nello stomaco, la scarica elettrica data dai suoi scherani alle migliaia di scomparsi e sopravvissuti infliggeva quel terribile dolore fisico che generazioni di torturati hanno subìto e subiscono dagli oppressori. Ma la nausea, il senso di morte senza la morte che gli stessi superstiti ai mille “Garage Olimpo” hanno narrato ha rinnovato a lungo la perversione e l’ignavia dei piccoli Videla disseminati in una società che per viltà, identificazione, superficialità, perversione sosteneva il piano del massacro giustificato dalla voglia d’ordine. Di Jorge Rafael Videla, degli oltre trentamila desaparecidos, degli ottomila omicidi ammessi da lui stesso, ordinati o provocati che fossero, dei terribili racconti che abbiamo ascoltato direttamente dalla voce rotta dei rifugiati argentini, dei filmati delle coraggiosissime madri della Piazza di Maggio, di storie conosciute da fonti letterarie resta nella mente un copioso, triste ma formativo bagaglio. Però c’è qualcosa che pesca più a fondo quando questo nome viene pronunciato.

Accanto alla faccia mesta e meschina che sovrasta la divisa bianca, sotto i baffini da attore hollywoodiano, non si può fare a meno di vedere il cittadino qualunque di Baires, in maglietta o in giacca e cravatta color nocciola che entra in un locale qualsiasi, un sottoscala condominiale o una sala da milonga trasformati nei “Garage Olimpo”. Lì un giovane del quartiere tirava su le maniche di camicia e iniziava a “lavorare”. A viso scoperto, senza timore, senza vergogna. Poteva accadere d’incrociare gli occhi di un coetaneo che aveva dribblato o sgambettato in una partita di calcio. Oppure veniva riconosciuto da quest’ultimo che non si capacitava come un ragazzo normale, un uomo come lui, che non aveva precedenti di fanatismo nazista potesse far quello che faceva a un fratello argentino. Millenovecentosettantasei. Chi in precedenza aveva combattuto, chi s’era esposto nella via della rivolta aveva conosciuto altri repressori e torturatori che vestivano i panni di Videla o avevano formato anonimi squadroni della morte.

Ma quella normalità del male, quegli inquilini della tortura che Videla e i suoi generali crearono per nefandi meccanismi d’imitazione restano simboli di un rinnovato lato oscuro della sopraffazione, di quella malattia chiamata fascismo. E i figli, sì hijos, strappati alle madri che si mandavano a morire coi voli sull’oceano e dopo venivano allevati in tiepide case borghesi da coppie che condividevano l’amoralità d’un duplice crimine. Certo pensiamo al racconto di Bechis, terribile per l’agghiacciante verità che svelava. Qualcuno commentando la morte d’un dittatore ormai vecchio, come vecchi erano tanti criminali nazisti scampati a Norimberga e anche a giustizie postume, chiosava che un simile mostro non doveva morire nel suo letto. Non del sanguinario dittatore – che ovviamente passa e trapassa – occorre riflettere ma dell’allucinata Argentina che gli fu al fianco mentre mangiava il cuore dell’Argentina migliore. 

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