L’appoggio turco ad Al Qaeda contro la Siria è sempre più spudorato, a costo di esporre la popolazione alle conseguenze della guerra civile. Come quando delle bombe esplosero a Reyhanli uccidendo 53 persone. Erdogan accusò la Siria, ma gli attentatori erano del Fronte Al Nusra, e i servizi segreti turchi lo sapevano.
I miliziani jihadisti dei gruppi aderenti ad Al Qaida o vicini alla variegata galassia jihadista – impegnati in una guerra senza quartiere contro le truppe siriane e ora anche contro le milizie di autodifesa curde e addirittura contro alcune frange dell’Esercito Siriano Libero – vanno e vengono praticamente indisturbati attraverso il confine con la Turchia. A denunciarlo in questi giorni è per l’ennesima volta il quotidiano turco Taraf. Il giornale – non certo noto per le sue posizioni radicali – ne ha avuto la conferma intervistando alcuni esponenti della galassia jihadista ad Istanbul. L’opposizione turca e i curdi siriani che combattono lungo il confine contro il Fronte al-Nusra e i miliziani dello Siis (Stato Islamico dell’Iraq e della Siria) hanno più volte accusato il governo del premier Recep Tayyip Erdogan di aiutare, finanziare e sostenere queste formazioni affiliate ad Al Qaeda. Taraf cita in particolare la testimonianza di un commerciante del quartiere di Fatih a Istanbul, O. E., secondo il quale “centinaia” di combattenti jihadisti passano dal confine turco per raggiungere le aree di combattimento. “Semplicemente attraversano il confine e vanno a combattere”. Molti mujahiddin arrivano dall’Afghanistan e dal Caucaso, ma anche dall’Africa del Nord e dall’Europa, come è ormai noto da tempo. Il “contatto di Al Qaeda” ad Istanbul avrebbe detto a Taraf che i combattenti ceceni sono ora il gruppo più forte e numeroso fra i jihadisti attivi in Siria. “Almeno mille ceceni, ha detto, combattono agli ordini del comandante Abu Omar”.
E’ l’ennesima conferma del ruolo che la Turchia svolge all’interno di un processo di destabilizzazione violenta della Siria che ha causato decine di migliaia di vittime e che promette di durare ancora a lungo, producendo tragici effetti a catena sul lungo periodo.
La rabbia di una parte del mondo politico e di una parte importante della società turca nei confronti del regime di Erdogan è aumentata, contribuendo notevolmente allo scatenarsi di grandi manifestazioni popolari represse con la violenza, da quando un gruppo di hacker-attivisti di estrema sinistra, appartenenti al gruppo RedHack, ha diffuso alla fine di maggio dei documenti riservati che proverebbero che i jihadisti di Al Nusra sono gli autori della strage di Reyhanli. L’11 maggio scorso alcune autobomba sono esplose in questa città a pochi chilometri dalla frontiera con la Siria, nella regione di Antiochia, abitata per lo più da popolazioni di origine e cultura araba (siriana), facendo 53 morti. Il governo dei liberal-islamisti dell’Akp diedero subito la colpa ai servizi segreti siriani e poi lanciarono una massiccia retata contro un gruppo di estrema sinistra turco, accusato di aver fornito la manovalanza per compiere la strage; molti attivisti vennero arrestati nei giorni seguenti e accusati di crimini gravissimi, mentre la propaganda del regime turco alzava i toni e prometteva ritorsioni contro Damasco. Ma la popolazione della città colpita e della regione di Hatay scese in piazza con rabbia, accusando l’Akp di essere dietro l’uccisione di 53 cittadini, se non direttamente comunque per il sostegno logistico, diplomatico e militare fornito alle milizie jihadiste ospitate e addestrate in appositi campi realizzati lungo il confine con la Siria. Quando la pista dei servizi siriani e dell’estrema sinistra diventò impossibile da sostenere vista la fumosità delle accuse, il governo turco cominciò a dare versioni sempre più confuse e contrastanti. Finché un soldato turco passò dei documenti al gruppo hacker militante di RedHack, che li rese pubblici, scatenando polemiche a non finire (della quali dalle nostre parti quasi non è avuta notizia…). Secondo i documenti di intelligence consegnati agli hacker-attivisti i servizi segreti di Ankara sapevano già dal mese di aprile che i jihadisti del Fronte Al Nusra, federato ad Al Qaeda, stavano preparando un grande attentato nel sud della Turchia, e non solo non intervennero, ma lasciarono fare, probabilmente per rendere possibile un inasprimento della posizione turca contro Assad, prontamente accusato di essere dietro l’attacco, e per permettere un ulteriore giro di vite contro l’estrema sinistra turca e le opposizioni in generale. E qualche giorno fa, incredibilmente, la procura militare turca ha chiesto una condanna a ben 25 anni di carcere per il soldato della Gendarmeria – polizia militare – accusato di avere consegnato a RedHack gli scottanti documenti. Secondo la procura il gendarme, Utku Kali, avrebbe fatto due copie di un rapporto dell’intelligence della gendarmeria, ne avrebbe consegnata una al suo comandante e avrebbe trasmesso l’altra copia ad un quotidiano di Istanbul, il noto Cumhuriyet. La copia sarebbe poi finita nella mani di RedHack, che l’aveva pubblicata smentendo. Il gruppo di hackers ha sempre negato di avere avuto le informazioni da una ‘talpa’ affermando invece di avere piratato il sistema informatico dell’intelligence turca. Il gendarme sarà giudicato dalla corte militare di Sivas, nell’Anatolia centrale.
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