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Norvegia: l’estrema destra è xenofoba e liberista. E tifa Israele

Davvero interessante e dettagliata questa analisi del Sole 24 Ore del risultato del voto per il rinnovo del parlamento norvegese. Pur perdendo consensi a favore del centrodestra tradizionale, l’estrema destra del Partito del Progresso si appresta ad entrare nel nuovo esecutivo di Oslo e a condizionarne fortemente le scelte politiche. E’ una ‘nuova’ estrerma destra che potrebbe fare scuola nel resto della Scandinavia: xenofoba, populista ed euroscettica, paladina del welfare – solo per i norvegesi autoctoni – ma anche liberista. Antislamica e filoisraeliana. 

Xenofobia, welfare e liberismo, il modello Progress Party nel Nord Europa

Alberto Magnani (Il Sole 24 Ore 10 settembre 2013)

Fino al luglio di due estati fa il Progress Party di Oslo era una sigla, fra le tante, della destra nordeuropea. Neanche 30mila iscritti, background ideologico in bilico tra pulsioni xenofobe e liberismo sfrenato, una trafila di collaborazioni e mancate intese con il Partito conservatore. Quasi 40 anni di attività, dalle origini nei primissimi anni 70 come partito antitasse, ma sempre considerato troppo «fascista» per imbarcarsi sulla scia dei conservatori, nel doppio ostracismo dalle liste cristiano-democratiche e liberali.

Poi la strage di Utoya, il nome ingombrante di Anders Breivik che compare negli archivi degli iscritti, e un tonfo elettorale (-6% di consensi) che sembra segnare la fine dell’unica «forza veramente populista» di un paese da poco più di cinque milioni di abitanti.

In Norvegia vince il partito del fisco leggero e del Governo snello

A settembre 2013, quello che nell’immaginario comune resterà a vita il «partito di Breivik» varca le soglie dell’arco istituzionale come forza nella coalizione di maggioranza. A braccetto con Erna Solberg, la “iron lady” norvegese che accelera sulle privatizzazioni e punta a diversificare un’economia fin troppo dipendente dal petrolio. L’exploit della destra radicale non poteva che spiazzare molti, nella prima sessione elettorale dalle 77 vittime della strage di Oslo.

Ma la Scandinavia è un laboratorio politico che viaggia su ritmi e modelli suoi, rispetto alla crescita continentale del populismo xenofobo. L’essenza del Progress Party si riassume in Siv Jensen, la “Thatcher norvegese” che guida il partito dal 2006. Jensen, classe 1969, diplomata nella stessa Norwegian Business School che forma il grosso della classe dirigente di Oslo, coordina le linee inusuali di un partito a metà via tra pulsioni nazionaliste e liberalismo classico.

Da un lato, anti-islamismo radicale e tendenze xenofobe sulle politiche migratorie. Dall’altro difesa del libero mercato, sostegno incondizionato a Israele e dialettica aperta sui diritti civili. Il collante tra estremi, smussati con i fatti di Utoya, sta nel timbro populista che accompagna il carnet elettorale del Pp: la Jensen ha già iniziato il pressing sugli alleati conservatori per rivedere il tetto del 4% sui prelievi dai Fondi petroliferi, la riserva da 750 miliardi di dollari che «garantisce il domani» del welfare per i giovanissimi norvegesi. Un ricettario che funziona poco nel sud dell’Europa, dove la rabbia anti-Schengen si accompagna a visioni tutt’altro che concilianti sul “mondialismo americano” e il governo di Gerusalemme. Ma si replica, come modello, in tutte le sigle del populismo a nord di Berlino.

Ad esempio, senza il Progress Party si comprenderebbe meno la parabola del “fortuyinism”, il partito ad personam guidato dal giornalista olandese Pim Fortuyin fino al suo assassinio nel 2002. Una sigla orgogliosamente populista e “carismatica” che mescolava in un contenitore unico xenofobia e diritti individuali, rifiuto del multiculturalismo e libero mercato.

 

O, per tornare a oggi, l’ascesa di forze cha cavalcano l’euroscetticismo senza sbilanciarsi del tutto sulla cosiddetta “estrema destra”. La lista è lunga: dal Danish People Party, terza sigla del paese fino alle elezioni del 2011, ai più accesi Sweden Democrats. Una frangia xenofoba che ha conquistato 20 seggi nel 2010, come costola “radical” di un partito liberale in crisi di consensi. Nel solco, e in anticipazione, del populismo del Pp tra i banchi del parlamento norvegese.

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