Molti quotidiani, in Italia ma non solo, hanno ribattezzato ‘la mani pulite turca’ la maxioperazione ordinata dalla magistratura di Istanbul e Ankara che pochi giorni fa ha portato all’arresto di 52 tra esponenti politici, banchieri, imprenditori e funzionari del partito di governo Akp, accusati di frode, corruzione e riciclaggio. Secondo le indiscrezioni pubblicate sul quotidiano turco di sinistra Radikal a seguito di indagini proseguite per più di un anno, gli imputati sarebbero stati arrestati per aver prodotto documenti falsi, trasferito illegalmente denaro su conti esteri, concussione e corruzione di dirigenti ministeriali per costruire in aeree vietate.
In manette sono finiti nomi eccellenti, compresi tre figli di ministri in carica: quello degli Interni, quello dell’Economia e quello della Pianificazione Urbanistica. Si tratta di tre ministeri chiave all’interno della strategia di allargamento del potere del primo ministro attraverso una commistione di aggressivo conservatorismo religioso, nazionalismo, speculazione edilizia, clientelismo e corruzione. Nella rete sono caduti anche il numero uno della banca pubblica Halk Bankasi, Suleyman Aslan, imprenditori di primo piano soprattutto del settore edilizio e il presidente del municipio istambuliota di Fatih, Mustafa Demir.
La polizia turca ha arrestato ad Ankara anche Sadik Soylu, dirigente e stretto collaboratore del ministro delle Infrastrutture, ma gli inquirenti, punterebbero più in alto e secondo Radikal vogliono chiedere al parlamento il via libera per indagare su anche quattro membri dell’esecutivo, che sarebbero coinvolti in un giro di corruzione per milioni di dollari. I ministri sarebbero quello degli Affari europei Egemen Bagis, il titolare delle Infrastrutture Erdogan Bayraktar, quello degli interni Muammer Guler e il responsabile dell’economia Zafer Caglayan.
Gli arresti giungono a pochi mesi dalle elezioni amministrative di primavera e rappresentano un durissimo colpo a Recep Tayyip Erdogan e alle sue aspirazioni di continuare a governare il suo partito ed il paese nei prossimi anni, puntando ad una riforma della costituzione che trasformi la Turchia in Repubblica Presidenziale.
Il primo ministro ha definito la retata il risultato di una ‘guerra sporca’ nei suoi confronti, legata ai moti popolari dell’estate scorsa, senza però accusare nessuno esplicitamente. “Mentre lottiamo per collocare la Turchia tra i dieci migliori paesi del mondo alcuni si sforzano di frenare la nostra crescita” ha tuonato il premier durante una conferenza stampa senza però fare nomi ma parlando di ‘uno Stato nello Stato’ e facendo un vago riferimento a non meglio precisate ‘forze straniere’.
Ma molti sono stati i media locali ed esteri che dietro i magistrati e gli apparati di sicurezza protagonisti della maxioperazione hanno visto la mano del potentissimo Fethullah Gulen e delle sue pedine all’interno dello stesso partito liberal-islamista di Erdogan. Da alcuni mesi il leader religioso, che risiede negli Stati Uniti e che è a capo di una confraternita dalle enormi ramificazioni nel campo economico e in quello dell’istruzione – Hizmet, una specie di ‘Opus dei’ musulmana – sta cercando di frenare i piani del suo ex pupillo. Non è un segreto che Gulen detiene un gran potere all’interno della magistratura, della polizia, dei servizi segreti e tra i funzionari del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, servito negli scorsi anni ad elevare ai massimi livelli della gerarchia l’ex sindaco di Istanbul le cui ultime mosse hanno però messo a rischio la stabilità e la continuità del potere dell’Akp.
Erdogan ha tentato immediatamente di vendicarsi e di stoppare i suoi detrattori ordinando la rimozione di cinque capi della Polizia – accusati di ‘abuso di autorità’ – in altrettanti dipartimenti della pubblica sicurezza di Istanbul, inclusi quelli contro il crimine organizzato, il contrabbando e i reati finanziari che nell’ultimo anno si sono occupati dell’inchiesta che ha portato agli arresti di martedì scorso. E’ saltata la testa del capo della Polizia di Istanbul, Huseyin Capkin, e quelle di un’altra trentina di dirigenti della sicurezza della città sul Bosforo ma anche della capitale Ankara e di Smirne. Il gesto del primo ministro è stato denunciato come una vera e propria rappresaglia da parte dei giornali vicini all’opposizione che continua a chiedere a gran voce le dimissioni dell’esecutivo a partire dai tre ministri coinvolti direttamente nell’inchiesta.
Intanto lo scontro di potere tutto interno al partito liberal-islamista ha già prodotto le prime conseguenze. Lunedì, alla vigilia della maxioperazione di polizia, si era dimesso dall’Akp l’ex calciatore del Galatasaray e deputato Hakan Sukur. Prima di lui a lasciare era stato un altro deputato governativo, legato alla confraternita di Gulen, che ha accusato l’esecutivo di penalizzare e mirare a chiudere le scuole private che preparano gli studenti agli esami di accesso alle università, gestite in grande maggioranza proprio da Hizmet (“Servizio” in turco).
In molte città turche centinaia di manifestati sono già scesi in piazza spontaneamente chiedendo le dimissioni dell’esecutivo e per domenica 22 dicembre una grande marcia all’insegna dello slogan “Istanbul è nostra” è stata convocata alle 12 nel quartiere asiatico di Kadikoy, roccaforte delle opposizioni laiche e progressiste. “Marciamo – si legge in una nota degli organizzatori – contro la consegna dei quartieri proletari alle imprese immobiliari e all’Autorità di Edilizia Residenziale Pubblica; contro la distruzione delle foreste con ‘progetti faraonici’ e la loro trasformazione in lussuosi complessi residenziali”. “Per dire no alla legge delle catastrofi naturali e la legge sulle aree 2-B, per il saccheggio irreversibile delle aree protette con valore storico e archeologico, per la vendita di scuole, ospedali, teatri, cantieri navali, e le stazioni ferroviarie per trasformarli in alberghi e centri commerciali. Diciamo no alla privatizzazione degli spazi pubblici, parchi e piazze, per il saccheggio delle linee costiere, discariche, e per l’appropriazione dei nostri Tfr”.
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