C’è del marcio in Danimarca, ma anche una speranza di riscossa. Il paese scandinavo è uno dei più tranquilli d’Europa. Il capitalismo, lì, non è messo in discussione quasi da nessuno, la protezione sociale è ancora forte, i salari abbastanza alti (alle spalle hanno la Germania, di fronte Svezia e Norvegia), la crisi ancora non si è affacciata.
Però il governo è andato in crisi sotto la pressione di un’autentica rivolta popolare. Sorprendente, vero?
Un po’ meno stupefacente se si tiene conto del motivo scatenante: Goldman Sachs voleva papparsi il settore energetico del paese, promettendo – manco a dirlo – “una riduzione delle tariffe”. Ma non sembra essere stata molto convincente, forse perché lì le regole del capitalismo le conoscono meglio. E sanno bene come vanno a finire certe cose…
La società energetica Dong – una utility, nel gergo attuale – stava per cede una quota rilevante alla più grande banca d’affari del mondo, quel colosso statunitense che molti considerano l’epicentro del terremoto finanziario globale degli ultimi anni. Il governo aveva approvato l’operazione, ma una parte rilevante dell’esecutivo si è opposto. Annette Vilhelsem, ministro degli affari sociali e dell’integrazione, leader del Partito popolare socialista (il governo danese, guidato dalla socialdemocratica Helle Thorning-Schmidt, è composto da una coalizione di tre partiti, ma senza maggioranza in Parlamento) è uscita dall’esecutivo insieme agli altri membri del suo partito.
Per ora non verranno a mancare i loro voti, ma ovviamente la tenuta dell’esecutivo è diventata assai precaria, visto che si regge soprattutto sugli “appoggi esterni”.
Dong Energy è un’impresa quotata in borsa, ma la cui golden share è in mano allo Stato (un po’ come Enel. Eni, Finmeccanica qui da noi). Goldman Sachs ha avanzato un’offerta per prendere il 19%; appena un miliardo di euro a fronte di 9 miliardi di ricavi nel 2012. Ma a pesare negativamente è stato soprattutto quel codicillo che concede all’”amerikano” il diritto di veto su decisioni societarie sgradite. Una clausola decisamente “originale”, che concede in pratica il timone dell’azienda a un socio di minoranza; per di più privato e non pubblico.
La “sollevazione popolare” è stata molto virtuale, ma pesante: quasi 200.000mila firme, su poco più di 5 milioni di cittadini, contro questa vendita. Soprattutto, i sondaggi davano i due terzi di contrari, favorevoli invece al mantenimento della “danesità” di Dong; quanto basta a sfiduciare completamente il governo.
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