IL CAIRO – Incessante, assordante, inquinante il traffico avvolge una Tahrir tornata immensa rotatoria. A ovest verso i luoghi dell’isola bene – Gezira e Zamalek – tutta ambasciate, sporting club, ristoranti modaioli in cui s’adagia la jeunesse dorée cairota; più hotel esclusivi come il Marriott, dove alloggiava la “cellula sovversiva” di Al Jazeera il cui processo è stato rinviato al 5 marzo. Le auto che invece puntano a nord-est, nel quadrante compreso fra Talaat Harb e le stazioni metrò Nasser e Orabi, rischiano l’ingorgo perenne per l’immenso mercato a cielo aperto imposto dagli ambulanti. Centinaia e centinaia di strade, traverse, arterie di scorrimento vengono occupate da banchetti d’ogni dimensione. Una Portobello vasta come una cittadina. E attorno vetture, quelle che dovrebbero transitare e non possono. Quelle che provano a farlo fra clacson, zig-zag, schiacciamenti, proteste, urla e maledizioni perenni. Fino allo scoppio di rapide risse fra contendenti. Nell’ottobre 2011, illudendosi, il governo islamico del premier Qandil provò ad affrontare il problema, proprio a seguito di vere battaglie di strada sviluppatesi fra migliaia di abusivi, tassisti addosso agli ambulanti. Cittadini automobilisti opposti a cittadini mercanti. Egiziani contro, negli affari, nei costumi come in politica. Il tentativo di regolamentazione, simile a quello promesso su nettezza urbana e inquinamento atmosferico, fallì e tutto è tornato come prima.
E’ fallito per l’inesperienza e il dilettantismo amministrativo dell’Esecutivo islamico, per l’assenza investimenti in simili infrastrutture cui né i dollari statunitensi, né i petrodollari del Golfo sono interessati. E per le radicate abitudini, l’insofferenza alle norme da parte di molti, il soggettivismo sfrenato con cui chi governa deve fare i conti e che al tempo stesso incentiva. Seguono ovviamente i bisogni, il tirare avanti per mangiare e chi non veste la divisa o entra nei pubblici uffici in quel via vai che a ore prestabilite si può notare attorno al colosso televisivo del Maspero o dei ministeri dislocati lungo le Corniche, crea il proprio via vai di mercanzia dislocata dove non dovrebbe e acquistata da ceti medi e anche dalle fasce meno abbienti. Il ceto medio minuto, cui appartiene o ambirebbe appartenere un pezzo dei dodici, quindici o venti milioni di cairoti (il numero degli abitanti della capitale oscilla per mancanza cronica di censimenti), è il maggiormente intimorito dall’instabilità politica nazionale. Più del credo secolarista, più della nostalgia mubarakiana e della ricerca d’un padre tutore individuato nelle luccicanti mostrine di Al-Sisi, i borghesi piccoli piccoli e coloro che vogliono diventarlo temono l’assenza di prospettive. Vivono nel mito del grande Egitto e sognano di ripristinarlo. Non vagheggiando l’era dei faraoni, che lasciano all’iconografia narrata ieri dalla guida turistica, ma credono alle promesse d’un rilancio della centralità egiziana in Medio Oriente. Alla faccia dei sauditi e degli emiri del Golfo. Lo spiega Gamal, procacciatore d’affari e mercante sui generis a Midan Hussein, a ridosso dell’omonima Moschea, cuore del secolare mercato di Khalili.
“Tutta la regione vive l’incubo dell’insicurezza terroristica introdotta dal qaedismo, da noi al Sinai e ora anche in città. Per vivere abbiamo bisogno di chi ha l’esperienza e i mezzi per stroncare gli attentati. Ecco perché ci affidiamo all’esercito”. Ripercorrere discorsivamente qualche momento saliente degli ultimi mesi serve solo a essere lodati per l’informazione. “Sei informato, amico. E’ vero: i militari godono di troppi privilegi e praticano arricchimenti personali ma la nazione non poteva cadere nelle grinfie della Fratellanza. Da mesi questi attivisti si lamentano della repressione, dimenticano quand’erano loro ad attaccare i sit-in anti Mursi. Chi ha ucciso Abu Deif che denunciava tali soprusi? I picchiatori islamici”. Sulle vittime di Rabaa, sulla morte degli oppositori laici ai militari il nostro interlocutore taglia corto. “Quando ci sono cose importanti da fare non si guarda per il sottile, Al-Sisi e i suoi stanno ricostruendo una nazione finita nella polvere”. Lo dice nello stesso istante in cui una vera folata di sabbia del deserto investe la sua auto parcheggiata lungo Kobri Al-Azhar. Da lì con gesti cadenzati e solenni estrapola pacchetti e cartocci distribuiti a venditori itineranti, sguinzagliati nei vicoli del suq. Dice contengano gioielli e ne propone l’acquisto, capendo subito qui di perder tempo. Quell’aria giallognola ha smosso certi amarcord: del pastoso mix di gas Cs e polvere cittadina oggi resta quest’ultima. Tanto basta e avanza.
(2 – segue)
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