C’è un’aria leggiadra e naïve (non vogliamo inveire) che caratterizza Hamdeed Sabbahi nel suo doppio passo di vaghezza politica e supporto alla reazione. Non sappiamo se inconsapevoli. Da buon veterano ha molti sostenitori: nel 2012 giunse terzo nella sfida presidenziale, raccogliendo quattro milioni e ottocentomila voti. Possiede un credo e una coerenza rispetto a valori che la recente storia d’Egitto ha dimostrato ormai dispersi dallo shulùq sahariano. Infatti si può continuare, come lui fa, a dichiararsi nasseriani ma del progetto progressista-accentratore del carismatico leader e primo presidente del più grande Paese arabo da decenni esistono solamente ricordi. D’un desiderio di grandezza svanito e rivolto, da delfini e imitatori, al solo atto di potere gestito non certo a vantaggio del popolo. Un popolo sempre più numeroso e in gran parte malandato. Per comprendere la linea di condotta e i piani dell’unico candidato ufficiale alla presidenza della Repubblica (l’osannato Al-Sisi pur avendo dismesso l’uniforme non ha ancora dichiarato di correre per il Palazzo di Al-Ittihadiya, ma lo farà) riportiamo alcuni pensieri di questo leader della sinistra egiziana. Esponente anche del famoso Fronte di Salvezza Nazionale che un anno fa spianò la strada all’atto di forza dell’esercito contro Mursi. L’intervista esclusiva è stata concessa al media cairota Al-Ahram
Nonostante l’ottimismo che lo contraddistingue, Sabbahi mostra il timore che le presidenziali del prossimo 26-27 maggio possano riscontrare circostanze simili alle elezioni del 2010, in cui i brogli pro Mubarak raggiunsero l’apice, segnando la vittoria del partito del raìs (NDP) con l’86% dei voti e una sorta di cancellazione di qualsiasi presenza dell’opposizione in Parlamento. Comunque Sabbahi ritiene che la partecipazione sia la mossa giusta per uscire dallo stallo e la sua candidatura è finalizzata a tale speranza. Individua l’attuale cancro che polarizza e spacca la nazione, puntando sull’esclusione di chi la pensa diversamente sul tema religioso, patriottico e sul ruolo della Rivoluzione del 25 gennaio. Crede di poter raccogliere attorno a sé anche l’adesione di chi non segue la sua corrente e ideologia. Fin qui passi la fiducia nel futuro. Quando, però, riflette sul 30 giugno (2013) e sull’impatto delle enormi manifestazioni a favore della rimozione di Mursi, Sabbahi sostiene che non fosse contemplata alcuna opzione di candidatura militare. Vogliamo credergli, ma i fatti dimostrano che sono stati quest’ultimi, diretti dal generale Al-Sisi, ad attuare l’arresto del loro comandante supremo: il presidente d’Egitto; come nel classico copione d’ogni golpe.
Il nasseriano mette l’anima in pace a chi l’ascolta spiegando che serviva un pugno di ferro contro il terrorismo. E anche per lui i terroristi erano i Fratelli Musulmani riuniti davanti la moschea Rabaa Al-Adawiya. Coloro che il 14 agosto vennero massacrati in ottocento o l’esatto doppio. Lo stato non ha voluto chiarire e nell’intervista il bonario politico lo tralascia. Ricorda limiti e fallimenti del governo islamico, considerato settario e pericoloso per la nazione perché voleva affossare le istituzioni e sostituirsi a esse con proprie strutture organizzative. Sabbahi tace sullo scioglimento dell’Assemblea del Popolo avvenuto ben prima dell’elezione di Mursi. Dice di prestare attenzione al vittimismo della Brotherhood, sebbene non si debba passare a una punizione collettiva. Dimentica, ma forse sarebbe imbarazzante anche per lui, che da agosto a oggi centinaia di militanti islamici sono stati uccisi, fra i dieci e i sedicimila arrestati, parecchi torturati, il loro vertice direttivo azzerato, e oltre seicento condannati a morte con sentenze risibili. Il nostro parla di una giustizia di transizione e riconciliazione. Ovviamente auspicabili, ma con quali responsabilità riconosciute per i massacri degli ultimi mesi? Non è chiaro. Ripete – in fondo è in campagna elettorale – che la Rivoluzione prenderà il potere attraverso le elezioni (magari la sua).
Un occhio sul tema sociale è aperto e guarda alla redistribuzione della ricchezza per risollevare le classi povere (calcolate al 21% della popolazione nel 2007 e giunte a oltre il 30% attualmente, ndr). La redistribuzione da sola non basta perché, chiosa Sabbahi, servono sviluppo e aggiornamento lavorativo. Su quest’ultimo tema offre il meglio di sé. Lui la modernizzazione, l’istruzione, la sensibilizzazione pensa di farla a poliziotti e militari che devono studiare cosa sono i diritti umani in modo da non rendersi responsabili di violenze. Originale tesi, che potrebbe essere anche seguìta e sperimentata se non si scontrasse coi voleri dei poteri forti, assolutamente autoctoni visto che Forze Armate e Polizia sono lobbies potentissime e impermeabili a qualsiasi intromissione o semplice inserimento della “didattica della democrazia”. Perciò l’uscita sulla formazione delle uniformi rischia di restare una boutade, rivolta eventualmente a incamerare voti del quotato, potente e dagli egiziani amatissimo concorrente Al-Sisi. In un’ipotetica redistribuzione delle ricchezze la casta militare dovrebbe subire una rivisitazione per tutti i capitali e le attività economiche gestite a favore suo e della rete degli imprenditori protetti. Dopo tante buone intenzioni un finale col botto: Sabbahi si rivela a cuore aperto dicendo che vuole un esercito forte capace di ottimizzare armamento, addestramento, impatto di scontro. Tutto per proteggere e non dominare il popolo. Un assist meraviglioso per il suo avversario che del resto lui stima.
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