Le icone s’incorniciano, nei cuori prima che sui muri. E Abdel Fattah Sisi, il generale che sacrifica la divisa per amore del suo popolo, ha da mesi afferrato l’anima degli egiziani che oggi e domani lo eleggeranno. Non tutti, ovviamente, la nazione che vota. La sua faccia seria e all’apparenza bonaria campeggia sulle pareti, nei negozi, su magliette e gadget ben prima che iniziasse la soluzione finale verso gli avversari della Brotherhood. Sisi è venerato come salvatore d’un Paese ch’era finito nelle mani della Fratellanza Musulmana. E i massacri dell’estate scorsa – milletrecento forse duemila fra uomini, donne, giovani assassinati da esercito e polizia – è come se non fossero mai avvenuti. Non se ne parla e non se ne deve parlare in casa e fuori. Chi lo fa è considerato traditore o terrorista, un impostore che vuole destabilizzare la vita egiziana. Così da mesi magistratura e polizia tengono rinchiusi, e processano, decine di giornalisti, alcuni accusati d’essere spie al soldo di nemici esterni. Nel caso del manipolo dei cronisti di Al Jazeera, agenti dell’emiro qatarino Al Thani in combutta con altri esponenti dell’Islam politico. Repressione su repressione, dopo gli arresti di decine di migliaia di attivisti sono arrivate le condanne a morte di massa (oltre seicento). E si vuol far credere che tutto sia normale.
Si giunge alla formalità dell’elezione con divieti alla libertà d’espressione, leggi liberticide, galera in cui torture nuove s’aggiungono alle vecchie con una continuità che distribuisce una presunta sicurezza riseminando il germe della paura, quella paura che Tahrir voleva rimuovere e rimpiazzare con la dignità. La prima purtroppo riappare, mentre l’orgoglio torna clandestino. Scegliere fra due candidati come oggi fanno gli egiziani nell’urna (seppure c’è chi diserta come nell’era Mubarak) è solo un camuffamento di democrazia cui si presta unicamente la risibile autoreferenzialità di Sabbahi. Eppure Sisi parla d’un suo mandato a tempo, le cronache e la cronologia gli daranno conferma o smentita. Se manterrà la parola lo farà perché la sua missione di riportare il Paese agli equilibri favorevoli ai capitali occidentali, cui contribuiscono sempreverdi feloul, sarà definitivamente compiuta. Se invece continuerà ad libitum potrà sempre dire: è il popolo che mi vuole. In effetti ora è così: una massa adulante agogna l’uomo forte, l’ennesimo raìs per la più popolosa nazione araba che aveva perduto il senno e che lui punta a ricondurre all’ordine e alla stabilità.
In una campagna elettorale giocata, probabilmente per motivi d’incolumità, al totale riparo degli studi televisivi con interviste dirette o registrate ma senza contraddittorio, Sisi ha fatto diffondere maggiori notizie sul suo passato. Quello trascorso in divisa (vestita secondo alcuni a vent’anni, secondo altri ancor prima) e quello infantile e adolescenziale. Figlio d’una borghesia minuta, prima artigianale poi mercantile, presente nello storico bazar di Khan El Khalili dove il padre gestiva una rivendita ingrandita nel tempo. Un genitore austero e severo mister Sisi che è stato molto presente nella formazione e ha fatto di tutto per sostenere la carriera del figliolo, fino all’ingresso nelle Forze Armate. Nella struttura militare Abdel s’è dedicato alla scalata ai vertici, lavorando con impegno allo scopo. Attualmente la propaganda che ne esalta l’immagine lo presenta come un predestinato: Sadat gli sarebbe apparso in sogno predicendogli il massimo incarico. Vera o creata ad arte la rivelazione serve a mitizzarne la figura, come quando gli viene riconosciuta una forza offerta con fermezza e sentimento. E mentre gli adulatori hanno scritto che “amoreggia col popolo”, il gossip locale rivela che molte donne impazziscono per lui, ma i morigerati costumi del suo laicismo conservatore non lo fanno cadere in tentazione.
Si dice che abbia sempre proibito alle donne di famiglia (madre, cugina divenuta moglie, figlia) di lavorare fuori casa, un tocco talebano che non si coniuga con le personali persecuzioni dell’Islam politico anche moderato. Come uomo dell’Intelligence, carica ricoperta sotto Mubarak, s’è dimostrato un perfetto tempista nel prevedere la rivolta contro il presidente, nel suggerire ai generali dello Scaf di non riabilitare il raìs deposto, nell’accettare senza batter ciglio l’apertura di Mursi che gli proponeva il dicastero della Difesa. Però da martedì, dopo l’elezione, l’attende la sfida più dura da combattere su un terreno che non è solo quello a lui congeniale di sicurezza e antiterrorismo. L’aspetta un’economia traballate e in bancarotta da ben più d’un triennio, che ha bruciato in un anno quasi tutti i prestiti provenienti dalle petromonarchie del Golfo (dai 12 ai 18 miliardi di dollari). E il rilancio di un’attività produttiva che i Paperoni occidentali non vogliono finanziare affatto, la lotta contro le generalizzate consuetudini assistenzialiste su carburante e certi prodotti primari che costano allo Stato cifre esorbitanti. E ancora: il caos assoluto del commercio minuto (un vero contrappasso familiare) rissoso, resistente a qualsivoglia normativa ed evasore fiscale incallito. Per tacere d’inquinamento, servizi pubblici come sanità, trasporti, istruzione totalmente in ginocchio. Nel piano di rilancio della produttività agricola Sisi propone d’irrigare tratti di deserto. La stessa idea di Sadat nei primi anni Settanta, forse anch’essa incrociata nel sogno rivelatore.
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