Sempre più alta la tensione in Libia dove la situazione si fa sempre più confusa. Uomini armati hanno preso d’assalto un hotel di Tripoli, di proprietà del nuovo premier Ahmed Meetig. Una fonte dell’ufficio di Meetig riferisce che nell’attacco sono stati usati lanciagranate che hanno causato ingenti danni, ma nessuna vittima.
L’elezione da parte del parlamento del giovane imprenditore Meetig, sostenuto dai Fratelli Musulmani e da altre forze islamiste, ha creato una forte spaccatura nel paese e i partiti che non lo hanno votato hanno presentato un ricorso contro la sua nomina alla Corte Costituzionale che dovrebbe pronunciarsi domani ma a cose ormai fatte.
A poca distanza dall’attacco all’hotel di proprietà del premier, una bomba è esplosa nei pressi dell’abitazione del generale libico Khalifa Haftar, che a metà maggio ha iniziato un colpo di stato graduale lanciando una massiccia operazione contro le milizie islamiche. L’attentato, che ha causato la morte di quattro guardie del corpo e il ferimento di altre persone, è avvenuto ad Abyar, circa 60 chilometri a est di Bengasi.
L’attacco si è verificato all’indomani di una nuova giornata di tensione vissuta a Tripoli, dove centinaia di persone sono scese in strada per protestare contro le operazioni militari e i bombardamenti condotti nell’est del paese dai militari fedeli al generale Haftar. Nella capitale gli scontri tra sostenitori del generale golpista e oppositori hanno causato diversi feriti. Nelle stesse ore, un’autobomba esplodeva davanti alla casa di un funzionario del ministero degli Interni incaricato di integrare nella polizia alcuni gruppi di ribelli che hanno combattuto contro le forze del regime di Gheddafi.
Di fatto, dopo la rivolta di alcune forze tribali appoggiate dalla Nato e dai governi degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, che bombardarono il paese e lo invasero permettendo un cruento ‘regime change’ nel 2011, la Libia ha cessato di esistere come stato unitario, disintegrandosi sulla base di interessi etnico-religiosi e politici legati a quelli di diverse potenze straniere. Il conflitto riguarda in particolare la gestione delle preziose risorse petrolifere della Cirenaica, dove a lungo alcune milizie e forze tribali hanno tentato di gestire le esportazioni di idrocarburi in maniera autonoma, senza passare da un governo centrale sempre più debole, fino al massiccio intervento militare dei mesi scorsi delle forze armate statunitensi.
Recentemente, il tentativo dei Fratelli Musulmani – sostenuti dalla giunta militare egiziana e dalle potenti milizie di Misurata – di imporre il nuovo premier Meetig, ha rinfocolato uno scontro latente che più volte negli ultimi tre anni è sboccato in cruenti scontri armati. Lo scorso 16 maggio l’ex ufficiale di Gheddafi e poi esule negli Stati Uniti, Khalifa Haftar, ha mosso per la seconda volta in pochi mesi le sue truppe contro islamisti e avversari politici affermando di voler “ripulire la Libia dai Fratelli Musulmani” e dichiarando guerra ai qaedisti di Ansar al Sharia, con i quali sono iniziati pesanti combattimenti a Bengasi ed in altre aree della Cirenaica. Haftar ha dichiarato disciolte le istituzioni e il Parlamento dominato dagli islamisti dopo che laici, liberali e moderati dell’Alleanza delle Forze Nazionali guidata da Mahmoud Jibril (aperto sostenitore di Haftar) hanno boicottato l’assemblea in seguito alla pretesa di cacciare dagli incarichi pubblici chiunque abbia ricoperto ruoli amministrativi durante il regime di Gheddafi.
Da più parti si denunciano i legami tra Haftar e l’amministrazione statunitense – il generale, secondo molti analisti anche statunitensi, sarebbe un attivo collaboratore della Cia – e l’aperto sostegno concesso ai reparti dell’esercito fedeli al leader del fronte golpista filoccidentale del regime militare egiziano e del governo saudita, interessati a spazzare via i Fratelli Musulmani dai Paesi scossi negli ultimi anni dalle cosiddette primavere arabe.
Insomma gli Stati Uniti e i suoi ‘alleati-competitori’ arabi stanno ampiamente manovrando in Libia per imporre la difesa dei propri interessi strategici, il che rischia di lasciare in seconda fila e penalizzare quelli di alcuni paesi che storicamente hanno gestito le risorse di Tripoli.
Tra questi l’Italia, già in parte estromessa dopo l’intervento militare occidentale del 2011, nonostante la poco convinta partecipazione del governo Berlusconi alla santa alleanza contro un Gheddafi con il quale la classe dirigente italiana, trasversalmente, aveva sempre intrattenuto ottimi rapporti.
Negli ultimi giorni il governo italiano si è detto più volte ‘irritato’ a causa dello scarso interesse dimostrato dai paesi dell’UE nei confronti della ennesima crisi libica e a causa delle continue e forti pressioni da parte dell’amministrazione Obama affinché l’Italia intervenga per ristabilire l’ordine in Libia, togliendo a Washington le castagne dal fuoco. “Noi siamo pronti a intervenire ma non possiamo partire da soli” si è esplicitamente lamentata il ministro della Difesa, Roberta Pinotti che sembra orientata, in linea con il premier Matteo Renzi, verso la richiesta nei confronti delle Nazioni Unite dell’invio di una missione di interposizione in Libia. Ma lo schieramento dei Caschi Blu a Tripoli non sembra essere neanche lontanamente nelle intenzioni del Palazzo di Vetro. Il che non è sfuggito a Renzi, che durante una conferenza stampa a Bruxelles a margine del G7 ha esplicitamente rimproverato le Nazioni Unite, affermando che “Noi siamo tra i primissimi contributori dell’Onu e di tutte le organizzazioni internazionali alle quali contribuiamo in misura decisamente superiore di tanti altri. Per quale motivo i caschi blu in Libia non ci possono andare?”.
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