Che gli interventi militari degli Stati Uniti e dei suoi alleati – Italia compresa – in diversi territori del Medio Oriente negli ultimi anni abbiano gettato interi paesi nel caos, consegnaldoli ad uno scenario di balcanizzazione e tribalizzazione che ha prodotto milioni di vittime, è sotto gli occhi di tutti.
Basti vedere cosa ne è stato della Libia.
E a rafforzare questa chiave di lettura contribuiscono non poco le notizie gravissime che arrivano dall’Iraq dove, ad undici anni dall’invasione militare statunitense, il paese è in preda alle scorribande delle milizie di Al Qaeda che da piccoli gruppi sparuti possono ora contare su decine di migliaia di combattenti.
Una forza tale da permettergli, in un paese diviso e stremato, di mettere le mani sui pozzi petroliferi dell’Iraq e di impossessarsi manu militari delle province di Ninive e Baiji e di Mosul, la seconda città per importanza. E ciò dopo che già a gennaio gli estremisti islamici avevano conquistato la città di Falluja, a soli 60 km da Baghdad, dove sono tuttora asserragliati e sotto assedio. A pochi giorni fa risale invece la parziale occupazione di Samarra, nel cuore della zona sciita, abbandonata solo dopo aver fatto molte vittime. Per non parlare dei continui attacchi terroristici, delle autobomba e dei kamikaze che dall’inizio dell’anno hanno provocato in tutto il paese almeno 4000 morti e decine di migliaia di feriti.
Protagonisti dell’inarrestabile offensiva, l’ennesima nel centro nord dell’Iraq, sono i gruppi jihadisti che fanno capo allo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis), forza assai attiva anche sul fronte siriano nella sporca guerra contro il governo di Damasco. E schierata in Iraq contro le forze fedeli al governo centrale, vicino a Teheran ed espressione in buona parte delle comunità sciite.
La situazione non è grave solo dal punto di vista militare e geopolitico, per l’importanza che l’area riveste a livello energetico – nella regione di Baiji passano gli oleodotti che dall’est del Paese portano il greggio verso le regioni occidentali – e per la sua vicinanza all’area autonoma curda poco più a nord. Ma soprattutto per l’emergenza umanitaria che ha prodotto: secondo le agenzie internazionali sono almeno mezzo milione i civili in fuga da Mosul e dalle città circostanti, sotto attacco dei miliziani jihadisti.
L’avanzata dei combattenti dell’Isis, molti dei quali stranieri, non ha incontrato una particolare resistenza. Un abitante in fuga da Mosul, Mahmud Nuri, ha raccontato alla France presse che, all’arrivo dei jihadisti, “le forze armate hanno buttato via le armi, hanno tolto la divisa, hanno abbandonato le loro vetture e sono fuggite dalla città. Non abbiamo visto nessuno sparare un colpo”.
Oltre che sui pozzi di petrolio e sulle raffinerie la conquista ha permesso agli estremisti sunniti di mettere le mani su varie decine di milioni di dollari trafugati nelle banche locali. I qaedisti hanno anche occupato varie prigioni, liberando circa 3000 detenuti, molti dei quali aggregati ora ai gruppi combattenti. I miliziani, stando a fonti della sicurezza locale, hanno rapito il console turco a Mosul e altre 47 persone, sempre turche. “Tra i 48 anche il console, membri dello staff, delle forze speciali e tre bambini”, ha riferito la fonte.
Secondo le informazioni disponibili consistenti battaglioni di jihadisti avanzano ora verso la provincia di Kirkuk, a sud. Qui, con l’autorizzazione dell’esecutivo centrale, sono state schierate forze militari irachene e anche due battaglioni di Peshmerga, le forze armate della regione autonoma del Kurdistan.
Combattimenti su vasta scala tra le forze di sicurezza irachene e combattenti jihadisti sono però in corso anche nella città di Tikrit, nel centro dell’Iraq.
La gravissima situazione ha spinto il premier Nuri al Maliki a chiedere al Parlamento la dichiarazione dello stato d’emergenza in tutto il Paese. Al Maliki ha anche chiamato tutti i cittadini a ‘prendere le armi’ per bloccare la inarrestabile avanzata degli estremisti nel nord dell’Iraq, ed ha lanciato un appello alla comunità internazionale affinché sostengano gli sforzi del governo iracheno «contro il terrore». Ma per ora né dall’Onu né dagli Stati Uniti né dall’Unione Europea sono arrivati messaggi incoraggianti.
D’altronde sono stati proprio i paesi occidentali, insieme alla Turchia e alle petromonarchie arabe, a fomentare l’islamismo settario in Medio Oriente, utilizzando i gruppi sunniti radicali, compresi quelli vicini ad Al Qaeda, per mettere in difficoltà i governi e le forze ostili agli interessi di Usa e Ue, in particolare gli Hezbollah libanesi, la Siria e l’Iran.
Sempre più in difficoltà sul fronte siriano, dove ormai da mesi i ribelli perdono posizioni a vantaggio di quelle governative, migliaia di combattenti sunniti provenienti da decine di paesi del mondo islamico ma anche da Europa e Stati Uniti si sono riversati in Iraq.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa