Nel corso di una conferenza tenutasi presso l’Università Statale di Campinas (Unicamp) nel mese di giugno, Jõao Pedro Stédile, economista, marxista, nonché membro della direzione nazionale del Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra (MST), ha esposto le problematiche strutturali del Brasile, da diversi mesi oggetto di discussione all’interno dei movimenti sociali brasiliani.
Il Movimento Sem Terra, oltre ad aderire al coordinamento internazionale Via Campesina, aderisce alla Plenaria nazionale dei movimenti sociali, che ha lo scopo di riunire movimenti di città e campagna e di trovare risposte ai problemi comuni della classe lavoratrice brasiliana. Inoltre, è tra i promotori di una “Campagna per la riforma politica” che si propone, mediante un Plebiscito popolare, di stimolare il dibattito tra la popolazione ed unire le forze con l’obiettivo di ottenere la convocazione di un’Assemblea Costituente.
Stédile comincia il suo discorso con l’affermare che, innanzitutto, è sempre “importante tenere presente la formazione storica, economica e politica della nostra società”, e le radici storiche che hanno segnato la formazione del paese e che “condizionano i problemi strutturali che affrontiamo ancora oggi”. Tutto è cominciato, afferma Stédile, con l’assalto del capitale mercantile europeo al continente sudamericano, quando è stato avviato un processo di produzione con manodopera schiava – il cosiddetto modello della plantation – che ha costretto il paese a quattro secoli di oppressione. La piaga della schiavitù, purtroppo, è ancora presente nel Brasile di oggi: a conferma di ciò viene citato un dato banale ma molto significativo: il Brasile è il paese con più impiegate domestiche al mondo, per la maggior parte senza contratto di lavoro. Questo aspetto si riflette persino nel modo di costruzione dell’edilizia pubblica: molti sono i palazzi “nobili” con due ascensori, uno di “servizio” per coloro che lavorano nell’edificio, l’altro “sociale” per chi ci abita. “Negli ascensori ‘sociali’ può entrare qualsiasi cagnolino” ma “una persona che prepara i tuoi pasti non puó salire in ascensore con te?”, si domanda perplesso Joao Pedro. Queste sono solo alcune delle contraddizioni di una società che, ancora oggi, è organizzata secondo criteri di razza, lascito dello schiavismo di epoca coloniale.
Un secondo aspetto strutturale fondamentale da considerare è il tardivo sviluppo del capitalismo industriale, realizzato durante l’era Vargas solo a partire dal 1930, e costantemente rivolto a soddisfare gli interessi dei paesi europei e degli Stati Uniti. Si tratta di un capitalismo industriale dipendente – come lo aveva definito Florestan Fernandes, uno dei sociologi brasiliani più importanti della teoria della dipendenza –: dipendente dal capitale e dalla tecnologia stranieri, ma soprattutto sottomesso alle necessità del capitalismo europeo e nordamericano di risolvere i loro problemi di accumulazione. Secondo Stédile, non esiste e non è mai esistita in Brasile una borghesia industriale interessata allo sviluppo del paese: esempio ne sia il fatto che la prima fabbrica installata nel paese sia stata una fabbrica di sigarette, mentre la prima industria siderurgica di Stato venne creata solo nel 1946 in cambio della concessione della base aerea di Natal agli Stati Uniti.
Per comprendere i problemi attuali, quindi, non basta puntare il dito contro le politiche neoliberiste avviate dal governo Collor, ma è necessario ampliare lo sguardo e ricordare come, a partire dagli anni Novanta, il capitale si sia internazionalizzato, i problemi relativi al livello dei prezzi e all’accumulazione siano al centro delle politiche economiche nazionali e come oggi tale accumulazione non si realizzi più all’interno della fabbrica ma nell’ambito del capitale finanziario: “è questo capitale finanziario che domina la fabbrica, il commercio e l’agricoltura”, dice Stédile.
Il Brasile conosce bene le conseguenze di un simile modello economico, la più evidente delle quali è lo sviluppo dell’agrobusiness, un nuovo tipo di produzione agricola intensiva, di cui beneficiano solo banche e multinazionali. L’agricoltura brasiliana, infatti, è destinata per la maggior parte all’esportazione (in particolar modo di soia e canna da zucchero), il cui controllo è nelle mani di cinque multinazionali non brasiliane. Nonostante la presidente Dilma esponga dati che indicherebbero una crescita della produzione agricola, nei fatti, i benefici di tale crescita finiscono come al solito nelle tasche di pochi. Per questo motivo Stédile invita a studiare la teoria marxista della dipendenza, che più di tutte è stata capace di spiegare il funzionamento delle economie subalterne.
Le politiche attuate, a partire dal 2002, dai governi Lula e Dilma, proponevano di porre un freno all’orientamenteo neoliberista degli anni Novanta e all’offensiva del capitalismo finanziario internazionalizzato, attraverso la proposta di un nuovo modello, definito di neodesenvolvimentismo (“neo-sviluppismo”) e basato su tre punti: a) intervento dello Stato nell’economia in contrapposizione al mercato e a quanto sostenuto dalle politiche neoliberiste; b) ripresa della crescita economica basata sullo sviluppo del mercato interno; c) politica di distribuzione del reddito affinché le masse possano consumare e attivare questa economia.
Il modello neodesenvolvimentista, secondo quanto afferma Stédile, ha effettivamente ottenuto alcuni successi e, in una fase di crescita economica, è stata avviata una politica di distribuzione del reddito. Si sono registrati, infatti: un aumento del salario minimo, un miglioramento dei benefici previdenziali e una crescita dell’occupazione. Queste misure hanno, di fatto, consentito una migliore distribuzione del reddito, ma non della ricchezza.
Le manifestazioni del giugno 2013 sono esplose, tuttavia, proprio a causa del fallimento di questo tipo di politica neodesenvolvimentista, che non è stata in grado di realizzare quelle riforme strutturali fondamentali per la costruzione di una società meno diseguale.
Secondo i movimenti sociali, per analizzare lo scenario attuale, è necessario tenere in considerazione gli importanti precedenti storici, i limiti e i condizionamenti di un governo “di conciliazione di classe” che ha abbandonato la lotta ideologica, e i limiti strutturali dell’economia brasiliana, che impediscono il raggiungimento di una società più democratica. La lotta politica della base, dunque, deve fronteggiare una serie di ostacoli non secondari, quali:
1. l’inarrestabile concentrazione della proprietà della terra che spesso viene denazionalizzata a favore di imprese multinazionali. A partire dal 2009, con la fuga di capitali dall’Europa a causa della crisi, il capitale fittizio ha investito in risorse naturali in Brasile e controlla oggi l’85% delle aree coltivate a monocolture, con cinque destinazioni principali: mais, soia, pascoli, canna da zucchero ed eucalipto. Nel paese esiste, secondo quanto afferma Stédile, un movimento antidemocratico e contrario ad una riforma agraria.
2. La concentrazione della ricchezza: “Chi sono i proprietari dei mezzi di produzione?”, si chiede Stédile. Nonostante in questi anni si sia riscontrata una migliore distribuzione del reddito, nei fatti perdura e cresce la concentrazione della ricchezza, che poi è la causa delle diseguaglianze sociali. Perché, mentre il reddito è annuale, la ricchezza significa patrimonio, cioè fabbriche, terre, imprese, servizi, tecnologie, che risultano quindi sempre più concentrate nelle mani di pochi. Il Tesoro Nazionale, inoltre, spende il 30% delle entrate statali (280 milioni di Reais) in interessi alle banche, soldi che quando tornano nella società si trasformano in patrimonio per le famiglie proprietarie di azioni.
3. L’insegnamento superiore: non esiste società democratica senza un’educazione universale. Se bisogna riconoscere che il governo Lula ha duplicato il numero di studenti universitari, passati dal 6% della popolazione giovanile al 15%, è necessario dire però che tale numero rappresenta solo una parte dei giovani brasiliani che cercano di accedere all’ambito universitario ogni anno. Nonostante la struttura accademica pubblica brasiliana sia cresciuta significativamente a partire dal primo governo Lula, il quale ha introdotto delle quote per garantire l’accesso alle cosiddette “minoranze” etniche (negri, indigeni…), milioni di brasiliani non rirescono ancora ad avere accesso all’università, per mancanza di posti. Secondo João Pedro non esiste, in tal senso, una spiegazione economica, ma solo “una spiegazione schiavista: la borghesia brasiliana non vuole dare diritti ai poveri”. Punto.
4. La concentrazione urbana, la speculazione immobiliare, gli affitti sempre più alti, hanno reso le capitali del paese sempre più invivibili: “le città brasiliane si sono trasformate solo in un buon affare per pochi” e, a causa dei forti incentivi al trasporto individuale, che interessa non solo la stessa industria automobilistica ma anche le banche (dal momento che molti devono ricorrere a un prestito per acquistare un’auto), in un inferno dal punto di vista del traffico. Secondo Stédile, oggi la richiesta popolare più significativa è quella per il trasporto pubblico gratuito: “già si impiegano ore per andare al lavoro in autobus e per di più devo pagare per essere sfruttato?”, è la logica sottostante a tale rivendicazione.
Lindberg Farias del PT, uno dei pochi candidati di sinistra all’elezioni dello Stato di Rio de Janeiro, ha calcolato, insieme ad alcuni economisti, che con il milione e mezzo di Reais impiegati per la ristrutturazione dello stadio Maracanà, si sarebbe potuto garantire il trasporto pubblico gratuito e l’ampliamento della linea metropolitana di Rio.
5. La concentrazione dei mezzi di comunicazione e quindi del sistema informativo, certamente poco plurale, nel quale la famiglia Marin può vantare un monopolio pressoché assoluto, rappresenta senza dubbio un problema di non poca importanza per le dinamiche politiche ed economiche nazionali.
6. La dipendenza tecnologica del Brasile dalle imprese multinazionali: il paese ha abdicato l’area della ricerca tecnologica agli interessi dei grandi gruppi transnazionali. Un esempio è costituito dall’Embrapa, Impresa Brasiliana di Ricerca Agricola, un’istituzione pubblica vincolata al Ministero dell’Agricoltura e creata nel 1973, nel periodo della dittatura e della cosiddetta “rivoluzione verde”, che destina solo il 10% dei fondi alla ricerca sugli alimenti e il resto lo utilizza per soddisfare gli interessi dell’agrobusiness.
7. Le diseguglianze prodotte dal prelievo fiscale: è evidente, infatti, che questo venga applicato soprattutto come imposta diretta sui consumi, piuttosto che sulle speculazioni patrimoniali e finanziarie. A scapito, dunque, delle fasce basse e medio-basse della società: “un’altra vergogna”, secondo Stédile, perché i grandi capitali, invece, non contribuiscono come dovrebbero. Un esempio eclatante è quello della Vale S.A., una delle più grandi società minerarie al mondo, creata nel 1942 dal Presidente Getúlio Vargas e oggi in mani private. L’attuale sede della Vale si trova a Ginevra, dove viene fatta la contabilità e dove rimane, quindi, la maggior parte del lucro. Le miniere, invece, e i relativi danni ambientali, sono tutti patrimonio brasiliano. Nel 2011, quando la richiesta di ferro ha registrato un picco a livello mondiale, gli azionisti della Vale hanno dichiarato che l’azienda avrebbe raggiunto i 29 miliardi di dollari di utili, dei quali neanche un centesimo è finito nelle casse brasiliane. Questo esempio, secondo Stédile, è emblematico degli evidenti problemi dell’organizzazione del sistema tributario brasiliano.
8. Il problema politico: ovvero del sistema politico che coordina potere esecutivo, giudiziario e legislativo. Nelle ultime due elezioni l’85% dei soldi destinati alla campagna elettorale proveniva da 117 imprese, che hanno investito 4,6 miliardi di Reais: “qualcuno ha dei dubbi? È questo il nuovo collegio elettorale del Brasile, non sono i 123 milioni di elettori. I 123 milioni di elettori hanno solo il ruolo di pagliacci. Nel giorno delle elezioni devono andare là e scegliere la foto del pagliaccio che vogliono scegliere ma chi già ha scelto il pagliaccio che verrà eletto sono le 117 imprese che attraverso le risorse finanziarie amministrano le candidature”. Secondo Stédile si tratta di un sistema “caduco, ipocrita e antidemocratico” per il quale è necessaria una riforma politica, in grado di dare la possibilità alle persone di scegliere liberamente il proprio candidato, in un sistema che non lo renda vittima di un “campionato di marketing”.
Questi sono, in generale, i limiti strutturali evidenziati dai movimenti sociali brasiliani e che devono essere superati secondo un programma pensato e realizzato dalla classe lavoratrice, se non altro per trasformare la società in un senso più democratico ed egualitario.
Stédile sostiene, inoltre, che esista un’offensiva ideologica da parte della borghesia nei confronti della società, e denuncia i caratteri egemonici della chiesa cattolica e del potere giudiziario. Il Movimento Sem Terra appoggia tutte le lotte sociali, perché dice Stédile, “bisogna sempre stare dalla parte della classe lavoratrice. Sempre meglio che stare con la borghesia”.
Le manifestazioni di giugno hanno mostrato che non si può più andare avanti così: “a questo punto sono le banche che devono perdere. È urgente una lotta di classe”. Le favelas crescono in tutto il paese, è indispensabile intervenire sulla speculazione edilizia che ha subíto un’accelerazione negli ultimi anni. Serve un’unità programmatica a livello politico, le mobilitazioni sono importanti e necessarie ed hanno un ruolo pedagogico per le masse e se vi fosse un’accelerazione della lotta sociale, allora si potrebbe discutere seriamente dei progetti di cambiamento da realizzare. L’aspetto positivo evidenziato da tali mobilitazioni di massa è che la classe lavoratrice sembra aver perso la paura di scioperare. Le difficoltà di stilare un programma unitario si superano soltanto pensandolo e costruendolo nelle piazze, nelle fabbriche e nelle campagne, intorno a problemi concreti e attraverso la coscienza della necessità della lotta politica, conseguenza della lotta sociale. L’esercizio permanente della lotta di classe sgnifica lottare contro la borghesia, contro il latifondo, contro le banche. Pane, terra e libertà non bastano: le masse non si muovono più seguendo le ideologie, bisogna adesso identificare i problemi reali e fondamentali ed organizzarsi per risolverli.
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