Oggi a Gedda, in Arabia saudita, gli Stati Uniti si riuniscono con i loro alleati – e competitori – per discutere una strategia comune per far fronte al dilagare dello Stato Islamico in Medio Oriente. A darsi appuntamento con i rappresentanti di Washington e di Riad sono stati Egitto, Turchia, Giordania, Oman, Libano e Iraq. E poi i partner dell’Arabia Saudita nel Consiglio di Cooperazione del Golfo: Qatar, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Oman e Kuwait. Al vertice partecipa il Segretario di Stato Usa Johan Kerry, reduce da un viaggio ad Amman dove ha discusso con Re Abdallah dei particolari del piano annunciato da Obama che prevede una campagna militare della durata di almeno tre anni e che – l’inquilino della Casa Bianca lo ha annunciato alla vigilia della simbolica ricorrenza dell’11 settembre – vedrà presto un incremento dei bombardamenti sul nord dell’Iraq ma anche in territorio siriano. Gli Stati Uniti, reduci da anni di isolamento internazionale quando non di aperto ostracismo (che ha bloccato l’invasione della Siria), sembrano aver recuperato negli ultimi mesi la leadership di una coalizione internazionale spuria e composita, messa insieme più a partire dal soddisfacimento degli interessi dei singoli paesi che da una coincidenza di vedute e strategie.
Per ora il collante è fornito dall’avanzata tra Siria, Iraq e Libano delle bande jihadiste dell’ex Isis, che hanno imposto una vera e propria amministrazione statale nei territori che occupano e controllano e che mettono a rischio gli interessi anche di quei paesi – è il caso di Arabia Saudita, Qatar e soci, oltre che della Turchia – che hanno a lungo coperto, protetto, finanziato e utilizzato i fondamentalisti sunniti contro i propri nemici, in particolare sciiti e curdi.
In un recente vertice al Cairo i Paesi della Lega Araba hanno raggiunto un accordo mirante a “fronteggiare” in materia unitaria le milizie jihadiste, e della partita è ormai anche l’Iran che dopo aver inviato forze militari in Iraq per impedire che i combattenti di Al Baghdadi arrivassero a Baghdad stanno ora sostenendo anche i peshmerga curdi insieme a Washington, Londra e Parigi.
Per l’occasione la monarchia feudale che governa l’Arabia Saudita ha rispolverato un progetto che aveva già esplicitato nel 2006, senza avere allora modo di metterlo in pratica: quello di blindare il confine con l’Iraq attraverso una sorta di muro. L’idea è quella di costruire una barriera lungo tutti i più di 800 chilometri di frontiera con Baghdad, dotata di sistemi di sorveglianza a raggi infrarossi e fibre ottiche, di torrette armate di mitragliatrici e artiglieria leggera e di radar, presidiata stabilmente da migliaia di soldati sparsi in decine di posti di comando e di sale per ‘interrogatori’. Prevista anche la creazione di tre brigate di intervento rapido da utilizzare alla bisogna, affiancate da circa 30 mila militari pronti a intervenire e dislocati a poca distanza dalla maxibarriera. Che si aggiungerebbe al reticolato già costruito lungo i 1800 km di frontiera con lo Yemen e all’assegnazione all’impresa europea Eads della costruzione di protezioni hi-tech lungo tutti i 9000 km di confini del paese.
La vecchia idea viene oggi riciclata da Riad con la necessità di impedire gli sconfinamenti delle milizie jihadiste, ma anche degli immigrati illegali, dei contrabbandieri, dei narcotrafficanti e dei ladri di bestiame (!). Un servizio di protezione che l’Arabia Saudita vorrebbe realizzare anche a beneficio delle altre petromonarchie del golfo. Protezione in cambio di controllo e supremazia nell’area, ovviamente.
Vecchie mire egemoniche, sicuramente. Ma è evidente che lo ‘Stato Islamico’, fino a qualche tempo fa creatura docile al servizio degli interessi delle varie dinastie che tiranneggiano la penisola arabica, minaccia ora direttamente non solo Baghdad e Damasco ma anche Riad e Manama. Il progetto dell’Isis di imporre un unico califfato in tutti i territori dove regna l’Islam cozza frontalmente con le aspirazioni delle borghesie feudali dell’area che negli ultimi anni, anche utilizzando le bande jihadiste contro i propri avversari, hanno accresciuto potere e influenza.
Sembrano lontanissimi i tempi in cui da Riad arrivavano fiumi di dollari e di armi ai diversi gruppi fondamentalisti salafiti che da anni stanno mettendo a ferro e fuoco la Siria governata “dall’apostata Assad”.
Mentre Riad ha fatto capire di essere disponibile a partecipare alla crociata contro i jihadisti anche mettendo a disposizione truppe e finanziamenti, il Gran Muftì Sheikh Abdul Aziz bin Abdullah ha conferito al progetto una motivazione religiosa, pronunciando una fatwa che definisce lo Stato Islamico “aggressivo e oppressivo’. “Se combattono i musulmani, allora i musulmani debbono combatterli per liberare il popolo e la religione dal loro (atteggiamento) maligno e dannoso” ha chiarito la massima autorità religiosa di Riad. E per cercare di frenare l’arruolamento dei propri cittadini nelle bande che spadroneggiano qualche centinaio di chilometri più a nord già nel febbraio scorso l’Arabia Saudita ha promulgato una legge che punisce con pene fino a 20 anni di prigione quei sauditi che vanno a combattere all’estero.
Basterà a rimettere insieme i cocci di un Medio Oriente diventato terra di conquista delle grandi potenze di sempre e delle nuove potenze regionali che non hanno esitato a giocare la carta dei tagliagole islamisti e che ora cercano di correre ai ripari –e di regolare i conti tra loro – incidendo una crociata contro le loro creature diventate troppo ingombranti?
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