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Referendum: le due Scozie che tifano indipendenza

Il 18 settembre i cittadini britannici ed europei maggiori di 16 anni e residenti in Scozia sono chiamati alle urne per il referendum che chiede l’indipendenza di Edimburgo dal Regno Unito dopo più di 300 anni dalla firma degli “Atti di unione”.

Diciotto mesi fa, al lancio del referendum, una vittoria del sì sembrava improbabile. Ma le proiezioni a pochi giorni dal voto preoccupano Westminster. Il gap tra unionisti e indipendentisti si è ridotto a soli 6 punti percentuali. Il sì sta recuperando terreno: secondo un sondaggio, il supporto per l’indipendenza è cresciuto dell’8% nel solo mese di agosto. Le proiezioni ora danno il no al 53% ed il sì al 47%.

Il comitato per il sì, ‘Yes Scotland’, ha mobilitato i cittadini ed il mondo culturale scozzese a favore della causa indipendentista senza fare leva su temi sciovinistici e operando tramite una struttura organizzativa di base. Uomo simbolo è il primo ministro scozzese Alex Salmond dello SNP, partito nazionalista di tendenze progressiste, maggioranza nel parlamento di Edimburgo dal 2007. Aderiscono a Yes Scotland anche i verdi, i socialisti e i comunisti, insieme a varie associazioni civiche. Il programma è stato presentato in una pubblicazione di più di seicento pagine, il ‘White Paper’, che contiene gli indirizzi generali di una Scozia indipendente. Tradizionalmente la Scozia è sempre stata un bacino elettorale di voti per la “sinistra” britannica, e tutt’oggi, dei 72 parlamentari scozzesi alla Camera dei Comuni solo uno appartiene alla maggioranza conservatrice. E questo uno dei motivi per cui tra i principali organizzatori del comitato del no, quindi contrari all’indipendenza, ci sono i laburisti britannici, consapevoli che in caso di una vittoria del fronte indipendentista vedrebbero drasticamente ridotto il loro peso elettorale in ciò che resterebbe della Gran Bretagna.

Ci sono posizioni diverse nel fronte ‘Yes Scotland’ riguardanti aspetti basilari della costruzione di una Scozia indipendente. Dalla natura dell’entità statale – i socialisti sono per la repubblica mentre lo SNP vuole restare nella monarchia e nel Commonwealth (in caso d’indipendenza, sarà il primo governo libero a dare forma costituzionale al paese in base alla volontà popolare che risulterà alle elezioni del marzo 2016) – alla politica sociale rispetto alla quale tutto il fronte referendario promette che in caso di vittoria sarebbe mantenuta pubblica e rafforzata la sanità, migliorato e ampliato il programma di studi superiori e universitari e, in generale, preservato il livello del welfare scozzese, da sempre un’anomalia nello scenario britannico.
È proprio questo uno dei maggiori punti di frizione con Londra che negli ultimi decenni ha spinto affinché anche in Scozia fosse avviato un piano di privatizzazioni dei servizi che la avvicinasse di più al sistema in vigore in Inghilterra.
Tra i temi più dibattuti tra le varie anime del fronte indipendentista vi è l’adesione alla NATO e soprattutto all’Unione Europea. Se infatti l’SNP è favorevole a rimanere sia nella Nato che nella Ue (anche se con un progetto di parziale smilitarizzazione del territorio scozzese) la sinistra radicale e buona parte della società civile stanno facendo della battaglia referendaria anche un importante momento di opposizione alle politiche sia della Nato che di Bruxelles ritenendo fondamentale che una Scozia Libera debba cominciare a rappresentare un’alternativa possibile allo strapotere delle banche europee così come dallo storico legame di Londra con Washington.

Queste implicazioni di natura internazionale sono probabilmente uno degli aspetti più importanti del referendum. Va detto infatti che l’indipendenza della Scozia costituirebbe un imbarazzate precedente per l’Ue che dovrebbe gestire un caso di separazione da uno stato membro che potrebbe ridare forza ad altri importanti movimenti indipendentisti in altri stati. Dal Paese Basco, all’Irlanda del Nord, dalla Catalogna al Belgio tutti i principali movimenti indipendentisti d’Europa guardano a quello che succederà nelle prossime settimane in Gran Bretagna come una prova generale per l’affermazione delle loro cause nazionali.  

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