EDIMBURGO – Il responso delle urne è irrevocabilmente negativo: 55,3 contro 44,7%. Poco più di due milioni di voti contro 1 milione e 650 mila. Niente indipendenza, niente libertà, niente fine della Gran Bretagna.
Non è bastata una generosa ma forse tardiva mobilitazione della base sociale indipendentista e popolare per ribaltare un risultato che, comunque, poche settimane fa sembrava ancora più schiacciante, tanto che la maggior parte dei media internazionali hanno a lungo snobbato la storica consultazione che ieri ha visto impegnati quasi 4 milioni di elettori scozzesi, ma anche europei ed extracomunitari residenti (alla faccia di chi descrive quello scozzese come un nazionalismo etnico ed esclusivista).
Nell’ultima fase della campagna i fautori della rottura con Londra ci hanno creduto, a migliaia si sono mobilitati nelle strade e nei luoghi di svago e di lavoro per spiegare le loro ragioni. Nella versione socialdemocratica dello Scottish National Party del premier di Edimburgo Alex Salmond, oppure in quella radicale e di sinistra della ‘Radical Indipendence Campaign’. Ma non è stato sufficiente. Già dall’inizio dello scrutinio è sembrato chiaro che la bilancia pendeva dalla parte degli unionisti, soprattutto quando alcuni distretti dati per conquistati hanno proclamato la vittoria del ‘no’. Non è bastata la “culla della working class” scozzese Glasgow e neanche Dundee o le zone petrolifere a ribaltare un risultato che alla fine ha premiato il mantenimento del legame con il Regno Unito. La “borghese” Edimburgo, dove pure hanno la propria sede le poco più che simboliche istituzioni autonome frutto di una devolution molto parziale, ha detto ‘no’ all’indipendenza, così come Aberdeen, più a nord.
Già dagli studi sui flussi elettorali della vigilia emergeva un voto ‘conservatore’ da parte delle generazioni più anziane e una disponibilità maggiore al cambiamento da parte dei giovani, che già dai 16 anni in su hanno potuto esprimere il proprio voto nei 2600 seggi sparsi dai Borders fino alle Highlands e alle isole.
Nei giorni scorsi e anche durante le operazioni elettorali di ieri nelle strade era possibile vedere, a Edimburgo, solo sostenitori e attivisti del ‘si’, accompagnati da centinaia di baschi, catalani, sardi, corsi, gallesi… Caroselli di auto, banchetti, volantinaggi, passanti con al petto una spilletta o un adesivo. Ma a prevalere alla fine è stata una vera e propria ‘maggioranza silenziosa’ composta in particolare da laburisti ma anche da liberali e da tories. Che non si è certo spesa molto per portare a casa il risultato. Al posto suo hanno lavorato i media, non solo quelli britannici ma anche il 90% di quelli scozzesi, le grandi imprese, le banche. Tutti hanno promesso disastri inenarrabili in caso di vittoria dell’opzione ‘secessionista’.
Basta vedere chi oggi gioisce del risultato per comprendere la reale portata di quanto è accaduto ieri a nord del Vallo di Adriano. Mentre
Ma poi gli stessi poteri forti hanno bollato come un disastro intollerabile la possibilità che una consultazione popolare democratica e pacifica potesse spostare un confine nel centro dell’impero.
Saranno contenti coloro che, anche a sinistra, hanno in fondo in fondo tifato per il mantenimento dello status quo. Bocciando un cambiamento relativo – l’indipendenza della Scozia – in nome di quello supremo: il socialismo, l’eliminazione delle frontiere, la fratellanza proletaria internazionale… O quelli che, dall’alto del proprio nazionalismo ‘risolto’ qualche decennio o secolo fa, disprezzano le ‘piccole patrie’ altrui o confondono rivendicazioni genuine e istanze di liberazione con progetti strumentali concepiti a tavolino da qualche mago del trasformismo che pochi anni fa rivendicava l’indipendenza della ‘Padania’ e ora va a braccetto con i nazionalisti italiani di Forza Nuova.
Non è andata, per questa volta. Ma comunque quella scozzese rimane un’esperienza di straordinaria partecipazione e mobilitazione popolare in una Europa sempre più blindata e conformista. Contro l’imperialismo e il colonialismo culturale, politico ed economico inglese e britannico. Ma anche – e in certi casi soprattutto – contro un modello politico neoliberista continentale basato sulle privatizzazioni, i tagli e l’austerity.
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