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La Turchia pronta a invadere la Siria

Sono almeno tre anni che il regime turco preme sui suoi partner internazionali per avere il via libera ad una invasione del territorio siriano accompagnata da una ‘no fly zone’ nel nord del paese confinante che impedisca all’aviazione di Damasco di intervenire contro i fondamentalisti sunniti dello Stato Islamico e delle altre sigle che continuano ad avere il sostegno dei liberal-islamisti di Erdogan.
Jihadisti che, nonostante i continui raid dei caccia statunitensi e degli altri membri della ‘coalizione dei volenterosi’, continuano ad avanzare nel territorio del cantone curdo di Kobane, dove le milizie popolari dell’Ypg, alimentate dall’arrivo di centinaia di nuovi combattenti anche dal Kurdistan turco, tentano di frenare l’impeto delle bande dello Stato Islamico.
Ed ora il grande momento più volte sfumato potrebbe essere all’ordine del giorno, almeno ad ascoltare il presidente turco Erdogan che ieri ha evocato la possibilità di inviare truppe di Ankara in Siria per contribuire ad istituire una ‘zona di sicurezza’ per i profughi siriani in fuga dai tagliagole sunniti. Gli stessi profughi che il governo turco ha fatto più volte disperdere dalla sua polizia con idranti e lacrimogeni e che i gendarmi di Ankara bastonano e trascinano via come fossero animali (vedi la foto). 

Alla motivazione umanitaria di un piano di invasione pronto da tempo ovviamente non crederà nessuno, ma servirà eventualmente ai partner di Ankara – Stati Uniti in testa – per sostenere il progetto che, lo ha chiarito lo stesso ‘sultano’ – è la principale condizione affinché la Turchia smetta di boicottare l’intervento militare delle potenze occidentali e delle petromonarchie arabe contro le milizie di Al Baghdadi. 

Al quotidiano Hurriyet, Erdogan ha detto che sono in corso negoziati per stabilire quali Paesi possano partecipare a una operazione di questo tipo. L’altro ieri il presidente turco, di rientro dall’Assemblea generale dell’Onu a New York, aveva annunciato che la posizione di Ankara nella lotta contro l’Isis è cambiata dopo la liberazione di circa 45 ostaggi turchi, lasciando intendere che ora la Turchia potrebbe unirsi alla coalizione militare internazionale contro l’Isis ma alle sue condizioni.
Di fatto la creazione di una ‘zona cuscinetto’ turca in territorio siriano permetterebbe ad Ankara di mettere mani e piedi nel paese sul quale la Turchia accampa da tempo rivendicazioni di vario tipo e, soprattutto, di spezzare la continuità territoriale tra le aree del Kurdistan turco controllate dal Pkk e quelle del Rojava siriano controllate dalla guerriglia curda. L’occupazione militare di una porzione di territorio siriano potrebbe essere parzialmente mascherata concendendo il controllo politico formale ad alcune formazioni della cosiddetta ‘opposizione siriana moderata’, un coacervo di gruppi liberali ma più spesso islamisti sul libro paga delle varie potenze attualmente impegnate nei bombardamenti del nord della Siria e del nord dell’Iraq.
Intanto ai raid nelle ultime ore si sono uniti anche i cacciabombardieri britannici, dopo il si del parlamento di Londra alla richiesta del premier David Cameron. E presto potrebbero arrivare anche i sette caccia F-16 inviati dal governo della Danimarca, dopo che ieri il premier di Copenaghen Helle Thorning-Schmidt ha imbarcato il suo piccolo ma bellicoso paese nella ‘Coalizione’ che vede attivi anche Francia e alcuni dei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo.
Ma i bombardamenti dall’aria, come spiegavamo prima, non sembrano aver fiaccato più di tanto l’operatività delle truppe dell’Isis che sono impegnate su vari fronti e che hanno addirittura sferrato una vasta offensiva nel nord-est della Siria contro le milizie popolari curde conquistando una consistente fetta di territorio.
Una contraddizione evidente della strategia statunitense che, paradossalmente, potrebbe però sostenere l’inizio della fase due dell’intervento del fronte militare approntato da Washington, che ha già fatto sapere che serve un intervento di terra che affianchi i raid dal cielo. Visto che nessuno dei paesi impegnati ha intenzione di mandare truppe di terra, la carne da macello da inviare contro le bande jihadiste dovranno fornirla i gruppi dell’Esercito Siriano Libero e della cosiddetta ‘opposizione moderata’, che da tempo ha sede in Turchia e a Londra. Opposizione moderata che però negli ultimi tempi è praticamente sparita, fagocitata dai gruppi estremisti – l’Isis ma anche Al Nusra – e surclassata da una nuova realtà, il Fronte Islamico, creato grazie ai finanziamenti dell’Arabia Saudita e dal punto di vista ideologico estremista quanto i tagliagole di Al Baghdadi.
Secondo Washington servirà presto un esercito di 15 mila uomini armati da scagliare contro le milizie dello Stato Islamico e allo scopo i paesi donatori dovranno sborsare parecchie centinaia di milioni di euro per armare ed equipaggiare truppe che ricacceranno indietro – senza eliminarle del tutto, che potrebbero servire in futuro – le milizie dell’Isis ma che di fatto occuperanno consistenti porzioni di territorio siriano per conto di Washington, Londra, Parigi e varie petromonarchie.
A quel punto la Siria rimarrebbe definitivamente spaccata in due, con il governo di Damasco assediato in casa da forze controllate dall’esterno.
E’ in questo quadro che la Turchia si vede costretta – e al tempo stesso stimolata – ad intervenire direttamente, per non rimanere tagliata fuori da una conquista del suolo siriano che Ankara ha perseguito attivamente da anni anche attraverso il sostegno alle milizie jihadiste e che ora potrebbe essergli scippata dai suoi alleati/competitori nell’area.

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