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Brasile: Dilma Rousseff in testa, flop Marina Silva

E’ stato un innegabile flop quello della ‘terza incomoda’ Marina Silva, ex ministro dell’ambiente del governo Lula poi passata all’opposizione e candidata alla presidenza del Brasile dopo la morte questa estate, in un incidente aereo, del segretario del Partito Socialista Eduardo Campos.

Nelle scorse settimane alcuni sondaggi l’avevano addirittura data in testa o comunque alla pari con la presidente uscente Dilma Rousseff, anche se negli ultimi giorni molte rilevazioni davano in discesa i consensi per la candidata socialista.
Che però, a spoglio ultimato, è arrivata solo terza con il 21,32% dei voti. Largamente in testa si è piazzata la leader del Partido dos Trabalhadores (Pt, centrosinistra) con il 41,59%, consenso non sufficiente però a vincere al primo turno. E così la presidente uscente il prossimo 26 ottobre dovrà confrontarsi al ballottaggio con il candidato del Partito della Socialdemocrazia (Psdb, di centrodestra, nonostante il nome) Aécio Neves, forte di un 33,55% dei voti.
Dopo la proclamazione dei risultati da parte del Tribunale Elettorale Centrale la presidente uscente ha rivolto un esplicito ringraziamento all’ex leader del Pt Lula da Silva, la cui presenza ha aleggiato costantemente su una campagna elettorale contraddistinta più dalla sfiducia che dall’entusiasmo. «Voglio rivolgere un ringraziamento speciale al leader del nostro partito, il compagno Lula, senza il quale non sarei qui dove sono».

Ed in effetti l’ex operaio metalmeccanico è dovuto scendere in campo personalmente per convincere alcuni settori della società brasiliana a schierarsi dalla parte dell’ex guerrigliera, poco amata, anche se per motivi opposti, da due diversi ambienti sociali. Mentre da una parte larghi settori popolari e alcune organizzazioni sindacali e di sinistra sono scontenti per le mancate riforme e per l’immobilismo sulle questioni sociali e sui diritti civili da parte dell’amministrazione Rousseff, dall’altra alcuni settori di una piccola e media borghesia cresciuti proprio grazie all’ascesa al potere del PT desiderano ora un cambiamento al vertice, con il mantenimento di alcune delle direttrici politiche attuali ma imprimendo una direzione più liberista all’esecutivo.
Due spinte teoricamente opposte che si sono intrecciate nelle manifestazioni e nei veri e propri moti che hanno sconvolto il Brasile negli ultimi mesi, nati spesso da rivendicazioni di sinistra e popolari – la riduzione dei prezzi dei trasporti pubblici, la riforma agraria, la fine dello sperpero di denaro pubblico per i mondiali di calcio e infrastrutture inutili, un tetto per centinaia di migliaia di lavoratori precari e contadini senza terra – sui quali si sono poi innestate le parole d’ordine e le mobilitazioni dei settori giovanili della piccola e media borghesia all’insegna della denuncia della corruzione e della richiesta di ‘meritocrazia’.
E’ ad entrambi i settori che Marina Silva, un passato ormai lontano da pasionaria ecologista, ha cercato di parlare per attirare consensi. Miscelando parole d’ordine di ‘sinistra’ con ammiccamenti espliciti ai poteri forti e alle lobby che spingono per un cambiamento soprattutto nella politica estera del Brasile, pretendendo un miglioramento delle relazioni economiche e commerciali con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, un allentamento dei rapporti con l’Alba e altre aggregazioni politico-economiche del continente e una corsia preferenziale nei confronti dell’Alleanza del Pacifico, leggi ancora meno restrittive per le multinazionali e le lobby finanziarie  di quelle varate dal governo del PT. Insomma una sorta di ‘terza via’ che però ha finito con assomigliare molto, troppo, al programma della destra che ha sempre sofferto l’integrazione del Brasile nelle alleanze indipendenti continentali costruite a partire dalle svolte progressiste e rivoluzionarie di Cuba, Venezuela, Bolivia ed Ecuador, con continue concessioni alle richieste delle multinazionali del petrolio, dell’acqua e degli Ogm e a quegli ambienti della borghesia brasiliana che pretende un’indipendenza assoluta della Banca Centrale di Brasilia, in un ritorno all’ortodossia moneratista che poco piace all’elettorato del paese.
 Per non parlare dei suoi legami con l’integralismo evangelico, che ha reso poco credibili le critiche della Silva all’immobilismo della Rousseff nel campo dei diritti civili in ossequio ai diktat del Vaticano. 

E quindi alla fine il voto ha rimesso le cose al loro posto, riconsegnando un’immagine e un panorama politico assai simile a quello del Brasile degli anni scorsi: supremazia del centrosinistra da una parte, leadership nell’opposizione di un centrodestra che controlla molti degli stati del Paese. 

Però ora il capitale elettorale dell’esponente evangelica arrivata solo terza diventa terreno di conquista per i due candidati al ballottaggio, che dovranno sicuramente estremizzare il proprio messaggio politico. Per attrarre i voti dei settori popolari che hanno votato al primo turno per Marina Silva la Rousseff, per convincere a votare per lui gli elettori più moderati e conservatori che hanno votato ieri per la candidata ‘socialista’ Aecio Neves. Entrambi i candidati dovranno offrire qualcosa alla Silva, nel tentativo di convincerla a esprimere una indicazione precisa ai propri elettori, ma l’ex ministro dell’ambiente potrebbe anche fare come quattro anni fa, quando alla fine decise di non esprimere nessuna indicazione di voto per il secondo turno. Molti degli elettori che hanno partecipato al primo turno – hanno votato ieri quasi l’81% degli aventi diritto – potrebbero non andare affatto alle urne tra tre settimane.

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