Sono ore drammatiche nella città curda di Kobane, con i guerriglieri delle Unità di difesa del popolo, delle Unità di difesa delle donne e del Partito dei Lavoratori del Kurdistan che stanno tentando di ritardare disperatamente la conquista dell’importante località da parte delle milizie dello Stato Islamico.
Che già ieri pomeriggio sono riuscite a penetrare in alcuni quartieri della città dopo un massiccio attacco a tenaglia che ha permesso ai jihadisti di conquistare una collina ai margini del centro abitato e un palazzo di quattro piani dai quali sta ora bombardando le postazioni della resistenza che contende ai fondamentalisti ogni strada, ogni casa, ogni piazza di Kobane. Il tutto sotto lo sguardo compiaciuto di decine di migliaia di soldati turchi ammassati a poche centinaia di metri, che si godono lo spettacolo dalle colline dalla parte turca del confine.
Un tentativo disperato, quello dei combattenti curdi e dei tanti volontari che hanno imbracciato le armi per la prima volta nella loro vita, di ritardare ciò che ormai sembra inevitabile, nella speranza che prima che sia troppo tardi qualcuno – gli Usa, la Turchia? – si decidano ad intervenire per fermare il prevedibile massacro e una pulizia etnica della zona che il “califfo” Al Baghdadi ha già condotto finora ovunque le sue bande abbiamo piazzato la bandiera nera del movimento.
Mentre scriviamo, riferiscono fonti locali, le milizie dell’Isis sostenute dall’artiglieria e dai carri armati sequestrati all’esercito iracheno dai jihadisti – che possono contare anche su armi sofisticate comprate sul mercato internazionale grazie ai consistenti finanziamenti di Washington, Ankara e Riad – hanno preso il controllo di numerosi quartieri nella città al confine con la Turchia, mentre i partigiani curdi tentano di mettere in salvo quanti più civili e di mantenere aperto un corridoio sicuro verso nord-est, in modo da non rimanere completamente accerchiati. Ma la resistenza curda promette battaglia fino all’ultimo: “Se entreranno, questo luogo diventerà un cimitero, loro e nostro, resisteremo fino all’ultimo” promette Esmat al-Sheik, responsabile della difesa di Kobane.
“Migliaia di civili a Kobane sono sotto imminente minaccia di massacro. Migliaia di civili sul confine turco sono anch’essi sotto minaccia di essere attaccati sistematicamente da IS. Il presidente del Cantone di Kobane, Mr Enver Muslim, ha avvisato le potenze internazionali della minaccia due giorni fa. Ha chiesto alla coalizione internazionale di rompere il silenzio e ha dichiarato; “Se IS entra a Kobane e commette un massacro di migliaia di persone tutte le potenze internazionali saranno ritenute responsabili.” Ora migliaia di persone stanno per essere uccise e massacrate davanti ai nostri occhi” accusa senza mezzi termini in un comunicato diffuso poche ore fa il Congresso Nazionale Curdo (KNK).
I famosi raid dell’aviazione statunitense, nel Nord della Siria così come in Iraq, hanno letteralmente ‘fatto il solletico’ alle truppe di Al Baghdadi, e spesso le bombe sganciate dai caccia hanno ammazzato più civili innocenti che miliziani jihadisti. Eppure, fanno notare i curdi ma anche numerosi esperti di questioni militari, i convogli di carri armati, di pezzi di artiglieria e di camion carichi di combattenti dell’Isis sono un bersaglio facile per i sofisticati caccia di Washington e degli altri membri della cosiddetta ‘coalizione dei volenterosi’. Se l’Isis non è stato indebolito dai bombardamenti è perché gli Stati Uniti e le petromonarchie del golfo non hanno alcuna intenzione di bloccare l’avanzata dello Stato Islamico.
Come del resto la Turchia, il cui parlamento ha votato ormai da giorni il via libera al proprio esercito affinché possa intervenire in suolo siriano ‘contro l’Isis’ ma che ha più volte ribadito per bocca del presidente Erdogan e del primo ministro Davutoglu che non ha alcuna intenzione di favorire i curdi, che per Ankara sono ‘uguali ai jihadisti’, e che non sosterrà la coalizione internazionale finché non sarà sicura che l’obiettivo principale è eliminare il governo Assad dalla scena e prendersi un pezzo di Siria spazzando via così anche la resistenza curda del Rojava e isolare la guerriglia del Kurdistan turco. Solo raggiunti i propri obiettivi strategici Erdogan potrebbe convincersi ad attaccare seriamente quella che è in buona sostanza una creatura degli ultimi anni di politica estera volta a creare uno strumento al servizio di Ankara per perseguire i propri obiettivi egemonici in tutta la regione.
In cambio di un suo aiuto, comunque relativo solo ad aspetti logistici e umanitari, il regime islamista turco chiede alla sinistra curda del Pyd di rinunciare ad ogni aspirazione autonomista e alla sua relazione fraterna con il Pkk, oltre che di mettersi sotto l’ombrello dell’Esercito Siriano Libero e di altre organizzazioni islamiste dell’opposizione siriana non meno estremiste dello Stato Islamico ma più controllabili da parte dei burattinai dell’Akp anche se assai deboli dal punto di vista militare visto che molte delle proprie componenti sono passate armi e bagagli sotto gli ordini del ‘califfo’.
Il gioco di Erdogan e delle petromonarchie arabe è così sfacciato che l’altroieri il vice di Obama, Joe Biden, ha inanellato una serie non certo casuale di apparenti ‘gaffes’ accusando apertamente il regime turco di aver permesso con no chalance a migliaia di terroristi sunniti di passare allegramente la frontiera con Siria e Iraq, e Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti di aver letteralmente coperto d’oro Al Baghdadi e i suoi tagliagole. Di fronte alle veementi proteste dei tre governi Biden ha fatto il finto tonto e ha presentato le sue scuse, ma l’episodio ha evidenziato da una parte la confusione che regna a Washington rispetto alla strategia da adottare in Medio Oriente, dall’altra una sempre più scarsa consonanza tra la potenza americana in declino e i nuovi spregiudicati attori della scena araba.
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