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Kobane combatte. Il ricatto di Erdogan, la frustrazione di Obama

E’ stata più volte data per conquistata dall’Isis in questi giorni, ma la città curdo-siriana di Kobane è ancora controllata in parte dalle Milizie di Protezione del Popolo e quelle delle Donne (Ypg e Ypj) e dai combattenti del Pkk. Che in un comunicato diffuso questa mattina affermano di aver sferrato ieri sera un’offensiva contro i jihadisti riuscendo a uccidere alcune decine di miliziani dello Stato Islamico in un’imboscata al loro ingresso all’interno di un ospedale e a ricacciarli indietro in alcune zone della città. Allontanati dalle zone orientali e occidentali di Kobane, i fondamentalisti sarebbero comunque riusciti a sfondare le difese curde nella zona meridionale del centro abitato, nonostante alcuni raid dei caccia statunitensi abbiano oggi colpito con più precisione alcune delle loro postazioni nell’area.

Il giornalista curdo Mustafa Ebdi, citato da numerosi media, ha raccontato che nonostante l’ordine di evacuazione ancora centinaia di civili sono intrappolati nella città sotto assedio e che “la situazione umanitaria è difficile e la gente ha bisogno di cibo e acqua”. Ebdi ha anche scritto che “le strade del quartiere Maqtala, nel sud-est, sono piene di corpi di combattenti islamisti”.

Intanto sembra crescere ed esplicitarsi la frustrazione statunitense nei confronti del regime turco, accusato oggi di ‘inventare scuse’ per non intervenire contro lo Stato Islamico che pure è arrivato a poche centinaia di metri dai suoi confini. Il vice di Obama, Joe Biden, in una presunta gaffe aveva già accusato Erdogan di aver permesso a migliaia di jihadisti di fare avanti e indietro dalla Turchia, anche se poi si era dovuto scusare. Ma oggi il New York Times ammesse, citando alcune fonti della Casa Bianca, che “c’è crescente frustrazione verso la Turchia che indugia a intervenire per scongiurare un massacro a meno di un miglio dal proprio confine – ha detto un alto funzionario dell’amministrazione – dopo tutte le denunce sulla catastrofe umanitaria in Siria, si stanno inventando scuse per non agire per scongiurare un’altra catastrofe. Non è così che un alleato Nato si comporta quando scoppia l’inferno a breve distanza dal proprio confine». Parole forti, ed esplicite, anche pronunciate da un funzionario. Accompagnate però dalle continue telefonate con le quali il segretario di stato Usa John Kerry starebbe tempestando il premier di Ankara Ahmet Davutoglu e il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu per convincerli ad agire, e subito. Domani, per esercitare ulteriori pressioni, arriverà ad Ankara anche il generale a riposo John Allen, nominato da Obama inviato speciale Usa per la coalizione anti-Isis. Un vero e proprio affollamento diplomatico, visto che giovedì nella capitale turca arriverà anche il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg nel tentativo di coordinare una strategia comune rispetto a quanto sta accadendo in Siria e Iraq. Non che alla Nato importi granché dei curdi, anzi. Il problema è strategico, visto che se l’Isis dovesse conquistare Kobane e arrivare alla frontiera turca isolerebbe numerosi territori la cui sorte sarebbe a quel punto segnata.
La Nato è pronta a sostenere Ankara in caso di pericolo aveva detto a Varsavia Stoltenberg: “La Turchia è un alleato della Nato e la nostra prima responsabilità è proteggere l’integrità e le frontiere della Turchia. E’ la ragione per la quale abbiamo dispiegato missili Patriot: per migliorare e rafforzare la sua difesa aerea” ha ricordato Stoltenberg quasi rinfacciando a Erdogan la sua ‘ingratitudine’ per l’appoggio finora ricevuto e ora non ricambiato.
Il problema è però che la classe dirigente turca non è di per sé contraria ad intervenire militarmente in Siria, anzi. Ma solo se Ankara potrà imporre il suo imprimatur su tutta l’operazione.
Le autorità turche hanno più volte chiesto che la Nato e gli Stati Uniti permettano al loro esercito di occupare una ‘zona cuscinetto’ in territorio siriano, accompagnata da una ‘no fly zone’ che non ha senso contro gli islamisti, che non possono contare su alcun tipo di forza aerea, ma che impedirebbe ai caccia siriani di sorvolare tutta l’area e di attaccare le postazioni dell’Isis.
Evidentemente l’accordo finora non si è trovato, visto che Erdogan continua a ribadire che muoverà i suoi militari solo se Washington gli assicurerà che l’obiettivo fondamentale della missione è spazzare via il governo Assad.
Un vero e proprio ricatto quello esercitato nei confronti degli Stati Uniti e della Nato, da parte del presidente turco, che proprio ieri ha detto senza peli sulla lingua che “Kobane sta cadendo e che si rende quindi necessaria un’operazione di terra”.
I suoi ‘alleati’ occidentali sanno che senza l’attivo sostegno delle forze armate di Ankara e l’uso delle basi militari nel sud della Turchia la cosiddetta ‘coalizione dei volenterosi’ potrà fare assai pochi progressi, ammesso che Obama e company vogliano andare veramente fino in fondo contro lo Stato Islamico. E non mirino soltanto, come d’altronde pensa l’Akp turco, a giustificare un’invasione e una occupazione della Siria giustificandola come una misura necessaria alla lotta contro il dilagare delle bande jihadiste, per ora assai utili nella strategia di indebolimento dell’asse sciita tra Damasco e Teheran. E comunque i turchi non hanno alcuna intenzione di intervenire prima che curdi e jihadisti si siano vicendevolmente sfiancati, sottraendo così alle forze armate di Ankara la responsabilità di intervenire contro le milizie popolari che resistono strenuamente nel Rojava contro l’assalto delle bande di Al Baghdadi. D’altronde, Erdogan lo ha affermato senza pudore: “i terroristi curdi non sono diversi da quelli dell’Isis”.

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