Cade oggi, 24 marzo il tredicesimo anniversario dei bombardamenti su Belgrado e della guerra “umanitaria” scatenata dalla Nato, contro l’ultimo pezzo rimasto della ex Jugoslavia (la Serbia ai tempi ancora unita al Montenegro). L’Italia
partecipò all’ infame impresa in prima persona, effettuando bombardamenti con aerei della propria aviazione. La criminale autorizzazione, è bene non dimenticarlo perché la storia non si cancella, fu data dall’allora Premier Massimo D’Alema, a capo di una coalizione di centro-sinistra che vedeva fra
gli altri la presenza dell’attuale Segretario del Pdci, Oliviero Diliberto,in qualità di Ministro della Giustizia.
Per giustificare i bombardamenti “umanitari”, l’allora segretario alla difesa americana William Cohen affermò che in Kosovo erano stati uccisi dai serbi 100.000 Kosovari, e D’Alema a cui non piace essere secondo a nessuno alzò la cifra nei giorni del conflitto e parlò di 200.000 vittime. Al pari delle vittime delle torri gemelle -che son passate da 50.000 (200.000 secondo la Fallaci) a 3.000 vittime- anche le vittime della “pulizia etnica” nel Kosovo furono poi ampiamente ridimensionate (670 secondo i servizi segreti croati non certo vicini ai serbi, 187 secondo il rapporto dei medici del Tribunale dell’Aja per i crimini di guerra in Jugoslavia).
Lo stesso copione e la stessa manipolazione mediatica, sono stati usati di recente per preparare l’invasione coloniale della Libia, così come nelle provocazioni armate in atto contro la Siria.
Ma tornando sull’altra sponda dell’Adriatico, molte cose sono cambiate dalla primavera del 1999: Milosevic è morto nel carcere internazionale dell’Aja, i cosiddetti criminali di guerra serbi (Radovan Karadzic e Ratko Mladic) sono stati assicurati alla “giustizia” grazie all’impegno dell’attuale presidente Boris Tadic, e a seguito di un referendum nel giugno del 2006, il Montenegro si è staccato dalla Serbia. Mancherebbe ancora qualcosa, ma ci arriviamo qualche riga più avanti.
Tornando al presente, lo scorso 8 marzo una delegazione di sei ministri italiani, guidata dal tecno-premier Mario Monti, ha incontrato a Belgrado il presidente Boris Tadic alla guida di una consistente rappresentanza
dell’esecutivo serbo.
Il “sobrio” Monti aveva già dichiarato di essere “particolarmente lieto” per l’ottenimento da parte di Belgrado dello status di candidato all’ingresso nell’UE, annunciato dal presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy al termine del summit dei “27” del 1 marzo scorso.
Così l’8 Marzo in terra serba, durante l’incontro bilaterale che ha visto la discussione e la firma di importanti accordi fra i dicasteri degli Esteri, Interno, Ambiente, Agricoltura, Sviluppo Economico e Difesa, ha voluto ribadire la propria felicità nell’ “unirsi alla gioia” di Tadic nel “poter esibire, solo da una settimana, la bandiera UE” nel proprio paese.
Belgrado quindi è candidato con tanto di bandiera UE, gli affari con l’Italia vanno a gonfie vele, ma manca appunto qualcosa: che fine hanno fatto i profughi Kosovari?
Nei mesi scorsi una parte dell’Ue e in particolare la Germania, con l’intervento di Angela Merkel in persona hanno posto ripetutamente come condizione alla Serbia per accedere allo status di candidato, il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo. Una condizione considerata inaccettabile anche per il filo-occidentale Boris Tadic che ha fatto inserire nella nuova Costituzione serba la frase che il Kosovo, terra
fondativa della storia e della religione dei serbi, «è irrinunciabile». Del resto anche il Consiglio di sicurezza dell’Onu l’indipendenza del Kosovo non l’ha mai riconosciuta; Russia e Cina sono contrarie, così come Spagna, Grecia, Romania e Cipro nord.
Non è che la questione sia definitivamente chiusa, ma è probabile che l’ingombrante presenza dei criminali dell’UCK (organizzazione armata della minoranza albanese di stampo mafioso, supportata dagli Stati Uniti) che hanno nelle loro mani la direzione del governo di Pristina (Kosovo) e hanno fatto diventare questa regione grande quanto il Molise, una zona franca per il traffico di armi, droga e base logistica per la criminalità organizzata internazionale- possa cominciare a disturbare gli interessi dei tecnocrati dell’UE, dediti anch’essi alla rapina, ma con altri mezzi.
L’apertura quindi del sobrio Monti al governo di Belgrado e l’indifferenza nei confronti dello slancio umanitario dimostrato con 78 giorni di bombardamenti (nel 1999) dai suoi “sinistri” predecessori per difendere la minoranza albanese in terra serba, potrebbe dunque trovare una spiegazione in queste difficoltà di carattere internazionale, ma ci viene il sospetto (diciamo pure la certezza) che la motivazione vera sia un’altra e molto più legata agli “affari” concreti che alle più o meno “nobili ed umanitarie”
ragioni.
La Serbia, già a partire dalla sua collocazione geografica, rappresenta uno snodo strategico nella circolazione delle merci del continente europeo.
A Belgrado si incrociano i corridoi paneuropei VII e X. Il primo è il collegamento fluviale che percorre tutto il corso del Danubio, che partendo dalla Germania e attraversando Austria, Slovacchia, Ungheria, Croazia, Serbia, Bulgaria, Romania e Moldavia, arriva fino in Ucraina.
Il secondo invece parte da Salisburgo (Austria) e arriva fino a Salonicco (Grecia), passando per Lubiana, Zagabria, Belgrado e Skopje. L’Italia si è fatta inoltre promotrice del corridoio XI, per collegare Belgrado al porto di Bar (Montenegro), facilitando così le relazioni commerciali con i porti di Ancona e Bari.
Sappiamo bene come la circolazione delle merci (e la velocità di circolazione come per la TAV in Val di Susa) soprattutto dentro una crisi economica di questa portata, sia di vitale importanza per il modo di
produzione capitalistico, ma la Serbia di oggi, così come gran parte dei paesi dell’Europa dell’est, rappresenta una frontiera “avanzata” (non certo per i lavoratori), in primo luogo per la produzione delle merci.
Le ragioni principali possono essere indicate in cinque punti:
1) Gli incentivi alla imprese straniere: tramite un apposito strumento legislativo, il “Decreto sulle condizioni e i modi per attrarre gli investimenti diretti” rinnovato anche per il 2012, lo Stato può dare un contributo cash che va da 2mila a 10mila euro per posto di lavoro. Una soglia che può crescere in casi speciali. Ad esempio nei grandi progetti che prevedano un investimento di almeno 200 milioni di euro e mille posti di lavoro (come nel caso della Fiat) le sovvenzioni possono raggiungere anche il 20% del totale.
2) Regime fiscale: 1. imposta sugli utili societari del 10% (Croazia e Polonia 19%, Romania 16%, fonte Siepa, Serbia Investment and Export Agency); 2. imposta sul reddito da lavoro dipendente del 12% (Bulgaria 20%, Romania 16%, Polonia 18-32%), 3. aliquote Iva ordinaria 18% e ridotta 8% (Polonia 23%, Croazia 23% e Romania 24%), 4. esenzione dal pagamento dell’imposta sugli stipendi e sui contributi a carico del datore di lavoro per 2 o 3 anni, 5. esenzione per 10 anni dalla tassa sugli utili per investimenti superiori a 8 milioni di euro e con 100 nuovi assunti, 6. credito d’imposta sugli utili che può essere ridotto dal 20 all’80%.
3) Zone franche: le imprese possono stabilirvisi godendo di fatto di una condizione di extraterritorialità: una su tutte l’esenzione dall’Iva. Attualmente ne sono attive sette, e l’ottava è in via di realizzazione.
4) Accessi privilegiati: la possibilità per le merci prodotte in Serbia di accedere a paesi terzi senza dazi doganali, grazie a una serie di accordi stipulati per favorire il commercio. L’ingresso privilegiato ad esempio in paesi come la Russia, la Bielorussia, il Kazakistan e la Turchia.
5) Bassi salari: la disponibilità di manodopera qualificata e con salari medi netti nell’industria manifatturiera inferiori ai 400 euro mensili. Ecco spiegato perché negli ultimi anni il numero delle aziende italiane che hanno delocalizzato la produzione in Serbia è triplicato e il nostro paese è diventato il secondo partner commerciale con la Serbia a livello europeo, dietro solo alla Germania.
Un giro d’affari stimato intorno ai 2,5 miliardi di euro l’anno per le 400 compagnie italiane (le fonti non ufficiali parlano di 1.100) che operano dall’altra parte dell’Adriatico impiegando all’incirca 20.000 dipendenti
principalmente nel settore tessile, metallurgico, automobilistico, bancario e assicurativo.
Con i suoi 3.000 dipendenti e una rete di 207 filiali, Intesa-San Paolo è laprima banca della Serbia. Assieme a Unicredit (940 dipendenti per 71 filiali) possono contare oggi su una quota di mercato di circa il 25% del
settore. Un valore che sale addirittura al 44% nelle assicurazioni, grazie alle acquisizioni fatte tra il 2006 e il 2007 dal Gruppo Generali e da Fondiaria-Sai.
Ma la parte del leone spetta alla Fiat che con la creazione di Fas – Fiat automobili Serbia, al 67% proprietà della Fiat e al 33% dello Stato Serbo, progetto del valore di un miliardo e 86 milioni di euro, ha perfezionato
l’operazione industriale più importante conclusa in Serbia negli ultimi anni. Gli accordi siglati e perfezionati tra il 2008 e il 2009 hanno portato all’acquisizione da parte della nuova società degli impianti Zastava di
Kragujevac.
Non se ne abbiano a male i profughi kosovari e i criminali dell’UCK che li rappresentano, ma la torta serba da spartire relega decisamente in secondo piano i loro destini.
Possono comunque sempre sperare di tornare protagonisti come alleati della NATO in una prossima guerra umanitaria che, vista la fame capitalista di questi tempi, è sempre dietro l’angolo e che come la storia ci ha insegnato, dopo i bombardamenti e le distruzioni, rappresenta per molti (e per Monti) un ottimo affare, almeno fino a quando a prevalere non saranno le ragioni dei lavoratori in Serbia come in Italia, in Grecia come in tutta Europa.
* Commissione internazionale della Rete dei Comunisti
Fonti:
Lupi nella nebbia – Kosovo: ONU ostaggio di mafia e USA di Giuseppe Ciulla e Vittorio Romano Jaca Book editore
UE-Balcani /Il si dopo i ricatti, di Tommaso Di Francesco il Manifesto 3.3.2012
Inchieste.Repubblica.it -Industria, fuga nei Balcani- di Pasquale Notargiacomo e Pietro Calvisi del 12.3.2012
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