Il Messico brucia, letteralmente, per i 43 studenti del Guerrero di cui si sono perse le tracce ormai da quasi un mese, dopo che durante una manifestazione nel municipio di Iguala alcune centinaia di loro sono stati attaccati a colpi di arma da fuoco da poliziotti e sicari al servizio della malavita (e dell’oligarchia locale).
Il 26 settembre furono sei le vittime della strage, tra studenti e passanti falciati dai colpi di arma da fuoco degli agenti della polizia locale e di uomini in borghese poi arrestati a decine dopo l’intervento dell’esercito federale. Per i fatti di settembre sono in totale 52 le persone finite sotto custodia tra poliziotti, funzionari pubblici e membri dei gruppi criminali, mentre numerosi mandati di cattura sono stati spiccati nei confronti di altri ricercati.
Ieri una partecipatissima protesta a Città del Messico ha preteso risposte ufficiali da parte delle autorità federali. Alla numerosa marcia hanno partecipato non solo decine di migliaia fra studenti, insegnanti e attivisti sindacali e sociali – molti dei quali vestiti di bianco – ma anche una delegazione di familiari dei giovani desaparecidos arrivati da Iguala per consegnare al governo statale una richiesta di incontro. Una protesta che ha chiesto verità e giustizia per quanto è accaduto nel Guerrero quattro settimane fa, ma anche la fine della violenza delle istituzioni e delle gang criminali – entità spesso coincidenti – contro i giovani, i movimenti sociali e sindacali, gli attivisti politici dell’opposizione, le madri di famiglia, i giornalisti indipendenti.
Durante il corteo – partito dal Monumento del Ángel de la Independencia e conclusosi al Zócalo – i dimostranti hanno gridato slogan di solidarietà nei confronti dei ragazzi della scuola ‘Normal’ di Ayotzinapa come “Se li sono portati via vivi, li rivogliamo vivi”, “Non siete soli”. “Vogliamo dire ai nostri compagni che li stiamo cercando, che le loro famiglie, i loro compagni, i loro vicini li stanno aspettando alla Normale di Ayotzinapa” ha gridato al termine della manifestazione il genitore di uno degli scomparsi che ha accusato esplicitamente le autorità locali di Iguala di aver orchestrato il massacro e il sequestro dei giovani manifestanti. I dimostranti hanno dato al governo un ultimatum di due giorni per incontrarli ed hanno ribadito la loro richiesta di dimissioni del governatore dello stato del Guerrero, Angel Aguirre. “Due giorni, solo due, altrimenti ne subiranno le conseguenze” ha minacciato un familiare, ripreso da un altro ancora, ancora più esplicito: “Se vogliono la guerra, avranno la guerra”.
Ed è proprio una guerra quella che vede impegnati da settimane migliaia di manifestanti nel Guerrero. Proprio ieri professori e studenti hanno assaltato e incendiato la sede del Municipio di Iguala. Dopo aver raggiunto in corteo la sede istituzionale i dimostranti hanno iniziato a lanciare pietre e poi hanno fatto irruzione all’interno del Comune appiccando il fuoco ai locali, così come era accaduto dieci giorni fa al Palazzo del Governo del Guerrero, a Chilpancingo. Una settimana fa i principali gruppi promotori delle proteste studentesche e sindacali avevano minacciato una radicalizzazione delle iniziative contro le istituzioni nel caso in cui i ragazzi scomparsi non fossero tornati a casa o i loro corpi non fossero stati riconsegnati alle famiglie, annunciando l’occupazione a oltranza degli 81 municipi del Guerrero.
Quindi martedì i dimostranti erano passati di nuovo all’azione. Circa 500 insegnanti e studenti, armati di bastoni e attrezzi vari, avevano fatto irruzione nella sede del Partito Rivoluzionario Democratico (di centrosinistra) della capitale statale Chilpancingo per imporre le dimissioni del governatore Angel Aguirre e poi avevano dato fuoco all’ufficio, provocando danni alle suppellettili, ai computer e ai documenti. Attaccate anche le sedi del partito di destra Pan e di altre forze politiche accusate di essere conniventi con la repressione e il legame tra istituzioni e narcotraffico.
A quasi un mese dai tragici fatti di Iguala non si hanno notizie certe sulla sorte dei 43 studenti scomparsi. Secondo gli inquirenti, gli agenti della polizia municipale di Iguala insieme a quelli del vicino municipio di Cocula hanno consegnato i giovani sequestrati ai membri della gang locale denominata ‘Guerreros Unidos’, obbedendo a un ordine del sindaco José Luis Abarca, da giorni latitante insieme a sua moglie e all’assessore alla sicurezza, sui quali pende un ordine di cattura.
Secondo la dinamica ricostruita dal procuratore Murillo, il sindaco di Iguala fu informato che circa 150 studenti stavano arrivando da Ayotzinapa per protestare contro la controriforma federale del sistema educativo. Temendo che potessero interrompere una iniziativa organizzata da sua moglie – imparentata con alcuni noti trafficanti di droga – diede ordine ai poliziotti di bloccare i manifestanti a qualsiasi costo. Quando un poliziotto sparò contro i giovani uccidendone uno i suoi colleghi aprirono il fuoco indiscriminatamente contro gli studenti che cercavano di scappare, compiendo una vera e propria strage. Per errore i poliziotti e i sicari hanno addirittura aperto il fuoco contro un autobus a bordo del quale viaggiavano i giocatori di calcio della squadra locale, i Chilpancingo Hornets.
Nel maldestro tentativo di eliminare le prove del massacro i responsabili politici del comune decisero di far sparire il numero maggiore possibile di ‘testimoni’: decine di studenti furono sequestrati dagli agenti – mentre altri scamparono nascondendosi per più di 24 ore – portati prima nel commissariato di Iguala, poi consegnati agli agenti di Cocula e da questi ai Guerreros Unidos. Secondo l’inchiesta i banditi avrebbero portato i giovani in un terreno a pochi chilometri da Iguala, nella località di Pueblo Viejo, a bordo di un pulmino bianco poi ritrovato alcuni giorni dopo, insieme a nove fosse comuni in cui sono stati ritrovati i resti di 30 cadaveri che però, secondi gli esami forensi, non appartengono agli studenti rapiti il 26 settembre.
E c’è chi ipotizza che gli studenti siano stati bruciati vivi: lo afferma padre Alejandro Solalinde, difensore dei diritti umani nella regione, intervistato dall’agenzia Misna. Il religioso ha detto che i ragazzi sono stati legati su una enorme catasta di legna e le fiamme appiccate mentre erani ancora vivi. “Il governo conosce questo sin dall’inizio. Solo che non lo vuole ammettere” denuncia padre Solalinde.
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