La newsletter di Affari Internazionali, espressione dell’omonimo Istituto Affari Internazionali, uno dei pochi think thank sui problemi strategici esistenti in Italia, riferisce una notizia interessante e inquietante allo stesso tempo: lo Stato Islamico, o Isis, vede crescere le strutture “federate” anche in altri paesi, alcuni dei quali – come l’Egitto, la Libia e l’Algeria – di estrema importanza nello scenario mediorientale. Ma, secondo i due analisti, alcune di queste alleanze – soprattutto in Egitto – non sembrano un punto di forza quanto di sopravvivenza dei gruppi jihadisti egiziani.
Qui di seguito l’articolo di Azzurra Meringolo e Ivan Criscuoli su Affari Internazionali del 17 novembre 2014.
Quattro giuramenti di fedeltà al Califfo. A farli, la scorsa settimana, diversi gruppi jihadisti che operano in Egitto, Yemen, Libia e Algeria.
La notizia che ha fatto più clamore è certamente quella dell’affiliazione del più pericoloso gruppo terroristico egiziano, Ansar Beit Al-Maqdis (Abm), che secondo alcun analisti potrebbe essere una pedina dell’autoproclamatosi “stato islamico” per espandersi dal Sinai verso il Maghreb.
Ciononostante, il giuramento di Abm va interpretato non tanto nel contesto della “guerra globale al terrorismo” targato Califfo, quanto piuttosto nelle dinamiche interne a un Egitto nelle mani dell’ex generale, ora presidente, Abdel Fattah Al-Sisi.
Questo deve infatti fare i conti con sacche di resistenza di matrice terroristica sempre più aggressive e pericolose nei confronti del suo regime, ritenuto illegittimo.
Tra Al-Qaida e lo “stato islamico”
Una prima notizia dell’alleanza tra Abm e le truppe del Califfo era già arrivata il 4 novembre. Era stata però smentita dall’account Twitter dei jihadisti egiziani. Questa vicenda ha quindi in primis confermato che le informazioni provenienti dal Sinai vanno prese con le pinze, visto che nella penisola l’accesso ai giornalisti è praticamente negato.
Al contempo, il susseguirsi di promesse e smentite per bocca di Abm mette a nudo la fragilità comunicativa del gruppo egiziano, frutto di una campagna mediatica mal coordinata rispetto a quella quasi impeccabile messa in piedi dai seguaci del Califfo.
È inoltre utile ricordare che i militanti di Abm, seriamente indeboliti dalla campagna dell’esercito egiziano, appartengono a un gruppo nel quale convivono due anime, sin dalla sua nascita nel 2011.
Da una parte ci sono i miliziani che appartengono al “vecchio mondo” di Al-Qaeda, dall’altro i “secessionisti” fanatici dello “stato islamico”. Ecco perché qualora il giuramento di Abm si trasformasse in qualcosa di più operativo, i fedeli al Califfo avrebbero mostrato di prevalere.
Ansar Beit al Maqdis entra nella lotta globale al terrorismo
Jihadisti a parte, la dichiarazione di Abm spiana la strada all’operazione militare egiziana nel Sinai iniziata otto mesi fa, ma diventata più intensa dopo che, lo scorso maggio, il gruppo terroristico è stato inserito nella lista nera statunitense.
Già prima del giuramento di fedeltà dei jihadisti egiziani, lo scontro in corso nel Sinai era passato da una questione nazionale (che coinvolgeva al massimo Israele, visto il confine con Gaza) a un mal di testa internazionale.
Questa escalation è avvenuta grazie all’astuzia politica di Al-Sisi che è infatti riuscito a sfruttare al meglio il dossier della lotta globale all’autoproclamatosi “stato islamico”, inserendo l’Egitto nella lista dei paesi minacciati dall’avanzata dei terroristi.
Poco importa se i jihadisti che si combattono sono quelli che si ispirano al Califfo o quelli che crescono in casa. Il Cairo ha tutti gli interessi a mostrarsi minacciato da pericolosi “terroristi” (magari anche solo personaggi non in linea con il discorso ufficiale, ma non per questo jihadisti) che vuole reprimere con l’approvazione e la collaborazione internazionale.
I risultati di questa operazione si sono visti a fine ottobre, quando l’amministrazione di Barack Obama ha sbloccato l’invio dei 10 attesissimi Apache che la Casa Bianca aveva congelato dopo l’intervento militare del 2013. Non è infatti un caso che il nodo dello sblocco degli Apache si sia risolto durante la riunione convocata l’11 settembre scorso dagli Stati Uniti a Gedda per esaminare le modalità attraverso le quali combattere lo stato islamico.
Sopravvivere più che espandersi
Anche se il regime egiziano ha interesse a mostrarsi preda della multinazionale del terrore che tanto spaventa l’Occidente, a motivare Abm sono in primis questioni tutte egiziane. Quando è nato, Ansar Beit al Maqdis si è fatto conoscere soprattutto per i diversi attacchi contro all’oleodotto del quale si serviva il Cairo per vendere – anzi svendere – gas a Tel Aviv.
Dall’estate del 2013 però, il movimento ha cambiato pelle e obiettivi. Gli attacchi alle postazioni militari sono diventati sempre più frequenti, come la dichiarata ostilità al nuovo regime militare.
Alla luce di tutto ciò è lecito chiedersi quanto sia corretto trattare Ansar Beit Al-Maqdis come la “testa di ponte” per l’avanzata del Califfo in Egitto e, da qui, nel Maghreb.
Anche se alla base del movimento vi è una radicata ideologia salafita che non rinuncia alla creazione di un Califfato islamico, non sembra questa la priorità dell’attuale agenda del gruppo.
Osservando le sue mosse sempre più focalizzate su target nazionali e il suo indebolimento a causa dell’operazione dell’esercito egiziano, l’annuncio di Ansar Beit Al-Maqdis sembra un grido di aiuto. Il giuramento di fedeltà nei confronti del Califfo appare più che altro l’amo per la creazione di un’alleanza per la sopravvivenza.
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