Abbiamo incontrato Veronika Yukhnina, attivista nella solidarietà con l’Ucraina antifascista, tornata di recente da un viaggio nel Donbass – durante il quale ha visitato numerose località, realizzato interviste e incontri – e ne abbiamo approfittato per porle alcune domande a proposito della situazione nella Repubblica Popolare di Lugansk.
L’escalation che ha portato all’inizio delle operazioni militari del governo di Kiev contro le popolazioni dell’Ucraina orientale è iniziata nel febbraio dello scorso anno, poco dopo il golpe seguito alla mobilitazione di piazza nota come ‘Euromaidan’. Ci puoi ricordare schematicamente le tappe di questa escalation che ha ormai condotta a una vera e propria guerra?
Si tratta in effetti di una guerra vera e propria, anche se il governo di Kiev si ostina a non dichiarare lo stato di guerra e a parlare di ‘operazione antiterrorismo’ sia alla propria opinione pubblica sia alla comunità internazionale. La guerra è iniziata fisicamente il 2 maggio con il bombardamento governativo della città di Slaviansk anche con l’utilizzo di bombe proibite dalle convenzioni internazionali contenenti sostanze chimiche diverse dal fosforo ma altrettanto micidiali, come attestato da un Comitato Investigativo della Federazione Russa.
La guerra è nata come reazione da parte del governo di Kiev al referendum realizzato nel Donbass e che, avendo avuto una partecipazione molto alta di cittadini, aveva sancito l’autonomia, l’autodeterminazione di quelle regioni e la difesa della lingua parlata in quei territori, il russo, contro un potere centrale considerato ormai come estraneo e aggressivo. In occasione delle prime proteste nelle regioni orientali i ribelli avevano anche occupato le sedi amministrative estromettendo le autorità rimaste fedeli a Kiev, un movimento nato anche in attesa che si verificasse anche per il Donbass lo scenario già realizzato in Crimea, dove dopo un referendum popolare quel territorio era stato annesso alla Federazione Russa. In un primo momento è stata forte tra i ribelli la speranza di un risoluto intervento da parte di Putin e del governo di Mosca che continuavano a promettere che non avrebbero mai abbandonato le popolazioni russofone e sarebbero intervenuti per difenderle. Ma così non è stato e quindi la popolazione ha deciso di difendersi da sola dall’aggressione militare dell’esercito governativo ed ha cominciato ad armarsi con vecchie armi recuperate dai magazzini della Seconda Guerra Mondiale. Mentre le forze armate di Kiev intensificavano attacchi e bombardamenti moltissimi volontari, sia dalle regioni di Donetsk e Lugansk sia dalla Russia e poi anche da altri paesi del mondo si sono uniti ai ribelli per partecipare alla resistenza oltre che per supportare le popolazioni assediate.
Le popolazioni del Donbass vivono da lungo tempo in condizioni difficilissime, e da mesi ormai anche alcune istituzioni internazionali parlano apertamente di ‘catastrofe umanitaria’. Si parla di numerosissimi profughi, le città bombardate e distrutte, la mancanza di cibo, medicine, elettricità, gas …
Già a luglio-agosto i dati ufficiali parlavano di circa 1 milione di profughi che per sfuggire ai combattimenti e soprattutto ai bombardamenti governativi si erano rifugiati in Russia (800.000) e in territorio ucraino (200.000). Questo su una popolazione complessiva delle due regioni di Donetsk e Lugansk, prima dell’inizio della guerra, di circa 8 milioni di abitanti. Ma dopo l’estate, nonostante il trattato di Minsk, la guerra si è intensificata e sono state evacuate città di medie dimensioni come Gorlovka, Uglegorsk, Pervomaisk e altre e quindi l’esodo è continuato. Nel territorio della Repubblica di Lugansk, che ho potuto visitare, le città più vicine al fronte sono molto danneggiate e quindi in queste aree la maggior parte della popolazione ha abbandonato le case, ma ci sono anche molte persone che per motivi vari non sono riusciti a fuggire – perché hanno un parente disabile, perché non hanno soldi, perché vogliono difendere la casa da eventuali razzie – e quindi qualsiasi cantina diventa un bunker che può ospitare fino a 50-100 persone, naturalmente in condizioni terribili. Quelle che ho potuto vedere io erano veramente luoghi infernali, con un’umidità intollerabile piene di persone sofferenti e malate – in particolare bambini – che spesso dall’influenza passavano alla polmonite senza la possibilità di ricorrere all’intervento dei medici. Ho visto gente che raccoglieva l’acqua dalle pozzanghere per strada o che rimane in fila per ore per mezza pagnotta di pane. I negozi sono tutti chiusi perché la gente ha paura dei bombardamenti, e anche molti distrutti o danneggiati dai bombardamenti come alcune scuole e alcuni ospedali, con la gente che continua comunque a girare nelle strade perché tanto un missile può colpirti anche mentre sei rinchiuso nella tua casa. La condizione peggiore è probabilmente quella che vivono le persone anziane che non sono riuscite ad evacuare.
I medicinali non arrivano, così come il cibo, quando sono in corso i combattimenti ma anche a causa dell’assedio e del blocco imposti dalle forze governative, oltre al fatto che il governo di Kiev ha bloccato il pagamento degli stipendi ai dipendenti pubblici, delle pensioni, dei sussidi e anche il funzionamento dei bancomat…
Questo incide molto sulle condizioni della popolazione anche se per fortuna le associazioni umanitarie che si sono mosse per assistere la popolazione in questi mesi fanno si che almeno alcuni farmaci salvavita vengano distribuiti gratuitamente quando è possibile. Ad esempio il primo segretario del comitato comunista di Lugansk raccoglie tra la popolazione le richieste di farmaci di cui hanno bisogno e periodicamente li va a comprare in Russia per poi distribuirli a chi ne ha bisogno. Se non arrivassero in continuazione aiuti alimentari dalla Federazione Russa sarebbero stati già moltissimi i morti per fame nei territori sotto assedio, e ce ne sono stati, anche se la cifra non è quantificabile. Gli aiuti umanitari che arrivano dalla Russia sono in parte di provenienza governativa e in parte frutto della solidarietà di partiti politici, associazioni, gruppi anche informali.
Inoltre nonostante la guerra, descritta dal governo di Kiev come contrasto del popolo ucraino contro l’invasione e terrorismo russi, dove per terroristi si intende anche la popolazione inerme, gli affari vanno avanti, i grossisti ucraini di alimentari e altri prodotti vendono la loro merce in Donbass pagando ai doganieri, in nero, un dazio di 1 Grivna per ogni chilo di merce, rendendola così ancora più cara alla popolazione già deprivata di ogni cosa.
In guerra la normale amministrazione del territorio, della politica e dell’economia saltano completamente. Per quello che hai potuto vedere come funzionano le amministrazioni che si sono formate dopo l’inizio del conflitto?
Siccome le istituzioni e le amministrazioni che esistevano prima dell’inizio della guerra hanno cessato di esistere, anche perché molti funzionari sono fuggiti o perché parteggiavano per i nazionalisti ucraini oppure perché avevano paura delle ritorsioni del governo di Kiev, se ne sono create altre nuove. Ad esempio nella città di Stakhanov ho potuto incontrare il sindaco della città che è un miliziano dei Cosacchi che però gestisce anche, oltre a questioni militari, anche quelle amministrative. In condizioni difficilissime perché non ci sono soldi da investire e da gestire, non si possono pagare stipendi agli amministratori e non esistono neanche incarichi ufficiali. E quindi si fa ciò che si riesce a fare anche bypassando le tradizionali gerarchie e burocrazie e rendendo in alcuni casi – paradossalmente, visto lo stato di guerra – più veloce e funzionale l’espletamento di alcuni compiti. Si fa quel che si riesce con l’obiettivo di assistere la popolazione e di alleviarne per quanto possibile le difficoltà: si riparano i gasdotti, linee e centrali elettriche, trasformatori danneggiati dai continui bombardamenti. E al lavoro volontario si prestano anche – a volte soprattutto – i miliziani cosacchi che svolgono compiti militari ma anche di manutenzione e riparazione delle infrastrutture urbane. Il lavoro di squadra come dicevo spesso rende molto veloci gli interventi. Ho potuto ascoltare dagli abitanti e dai miliziani che sono contenti sia per il brusco calo della criminalità nella regione di Lugansk, sia per una migliore convivenza. Frutto probabilmente di uno stato di insicurezza e difficoltà che spinge molte persone ad atteggiamenti di solidarietà e di collaborazione che aumentano il senso di comunità e di appartenenza ai territori assediati.
Lo accennavi già prima in un passaggio: c’è una forte presenza dei comunisti e della sinistra più in generale all’interno dell’amministrazione e della resistenza del Donbass, che spesso viene rimossa completamente dai media che sembrano interessati soprattutto a sottolineare invece una presunta egemonia da parte di forze di destra e nazionalistiche…
Da quello che ho potuto vedere moltissime delle persone che combattono nelle milizie del Donbass lo fanno per proteggere le loro case, le loro famiglie, il loro territorio dall’aggressione del governo di Kiev e dei battaglioni di estrema destra e nazionalisti ucraini, e molte di loro non hanno un chiaro orientamento politico o ideologico. Comunque non mi aspettavo prima di andare di rilevare una presenza così forte della sinistra e dei comunisti, e invece ho trovato che tutto il movimento di resistenza è intessuto da elementi comunisti e di sinistra, alcuni dei quali si manifestano esplicitamente e altri no. Tra i ribelli in generale c’è una concezione politica basata sul fatto che la terra e le ricchezze devono appartenere al popolo, ai lavoratori, e anche tra i Cosacchi il futuro di un Donbass che si spera liberato dopo la guerra è molto forte una visione basata sulle nazionalizzazioni delle grandi imprese e delle risorse naturali. Paradossalmente sono molte diffuse anche concezioni che erano alla base di una parte del movimento di Maidan, almeno all’inizio, legate alla lotta contro la corruzione, il potere dell’oligarchia, la burocrazia. Il Partito Comunista ufficialmente non esiste come tale perché non esiste in quel territorio una legge che consenta la registrazione dei partiti ma non si è sciolto e agisce sotto forma di associazione politica e mantiene la sua struttura; i militanti comunisti oltre ad essere impegnati nell’amministrazione e anche sul fronte militare stanno cercando di attivarsi anche su quello ideologico e politico, di operare una ricomposizione dei vari gruppi con l’obiettivo di aumentare la propria influenza soprattutto in vista della fine della guerra.
Esistono anche delle formazioni militari che sono identificabili come comuniste; non sono prevalenti nel variegato panorama della resistenza ma alcune hanno un grande seguito o comunque suscitano interesse…
Posso citare una brigata, che ho potuto incontrare ad Alchevsk, quella guidata dal comandante Mozgovoy, che è un personaggio interessante ma contraddittorio, sul quale i commenti sono di solito o molto positivi o molto negativi. All’interno del suo Battaglione “Prizrak”, esiste un’unità, la “404” che si definisce comunista e combatte sotto l’insegna della bandiera rossa; il suo capo, Alexey Markov, un fisico nucleare che negli ultimi anni faceva l’uomo d’affari, quando lo abbiamo incontrato ci ha spiegato che la necessità di formare un battaglione comunista è nata a causa del fatto che molti combattenti non volevano essere inquadrati in formazioni neutre o di altro colore politico e quindi alla fine la decisione di formare un’unità combattente comunista. I 18 guerriglieri iniziali sono diventati un centinaio e da quello che ci hanno detto ci sono molte richieste di integrazione nella 404 che sta quindi crescendo numericamente.
L’ultima domanda non possiamo che rivolgertela rispetto alla presenza all’interno del territorio del Donbass di quell’esercito proveniente dalla Federazione Russa di cui parlano in continuazione il governo di Kiev e a volte gli Stati Uniti o la Nato e della cui presenza e attività, in tanti mesi di conflitto, non è stata mai prodotta alcuna prova evidente. Tu hai visto militari russi nel corso del tuo viaggio?
Questo è un aspetto controverso della questione sul quale mi ero ripromessa di indagare a fondo, e a volte sono stata anche insistente con le persone che ho incontrato per capire se effettivamente c’è stato e c’è l’intervento dell’esercito russo. Che però almeno io non ho visto almeno a Lugansk, dove i volontari russi non arrivano neanche al 10% del totale dei combattenti. Pochi di questi volontari russi hanno una qualche preparazione militare, la maggior parte di loro non ha svolto spesso neanche il servizio militare in Russia. Si tratta di persone di tutte le estrazioni sociali, compresi alcuni imprenditori che possono permettersi di pagarsi le armi e le altre attrezzature militari per andare a combattere al fianco della resistenza del Donbass. Alcuni di questi hanno addirittura investito ingenti risorse economiche per pagare l’acquisto di armi, vestiario e attrezzature per gli uomini insieme ai quali combattono. Di soldati russi io personalmente non ne ho mai incontrati, e ho chiesto della loro presenza anche al giornalista britannico Graham Phillips, che ormai da moltissimi mesi lavora in Donbass, e anche lui ha negato questa circostanza anche se ha affermato che la presenza di volontari russi in certe zone della Repubblica di Donetsk può raggiungere anche il 20% dei combattenti ma anche in questo caso con una presenza assai scarsa di persone con una preparazione militare precedente.
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