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Rapporto denuncia: soldati israeliani stragisti non per caso

L’esercito israeliano nel 2014 ha colpito in modo indiscriminato alcune zone abitate dai civili palestinesi nella Striscia di Gaza, causando volutamente la morte di molti innocenti. A rivelare quello che in molti già sapevano o almeno sospettavano – cioè che i civili non sono danni collaterali delle missioni militari israeliane ma i reali obiettivi – è stato un rapporto diffuso dall’organizzazione israeliana Breaking the Silence (Rompendo il silenzio), realizzato attraverso più di sessanta interviste ad altrettanti militari israeliani, tutti coperti dall’anonimato per evitare rappresaglie. Un rapporto intitolato “Così abbiamo combattuto a Gaza” e presentato dalla presidente dell’associazione, Yuli Novak.
L’indagine è stata condotta dopo la fine dell’operazione militare denominata ‘Margine protettivo’ lanciata dalle forze armate di Tel Aviv l’8 luglio del 2014 contro la popolazione della Striscia di Gaza dopo alcuni lanci di razzi da parte di Hamas (a loro volta una rappresaglia contro precedenti bombardamenti israeliani). I continui bombardamenti, dal cielo, dal mare e anche da terra, durati la bellezza di sette settimane, hanno causato la morte di 2.140 palestinesi, la maggior parte dei quali – 1.486 – civili. Per contro 73 israeliani (67 militari e sei civili) sono morti in conseguenza dell’impatto dei razzi lanciati dalla resistenza palestinese e soprattutto a causa della reazione militare degli aggrediti contro le forze di terra inviate da Israele nel territorio dell’enclave assediata e bombardata.
Gli ufficiali israeliani hanno negato le accuse e hanno ribadito più volte che l’esercito ha sempre cercato di evitare vittime tra i civili e ha tentato anche di non colpire le già fragili infrastrutture di Gaza. Ma secondo quanto denuncia Breaking the silence in realtà i soldati israeliani ricevevano ordini molto diversi: ogni persona avvistata nelle zone del conflitto doveva essere considerata una potenziale minaccia. “Gli ufficiali dicevano ai soldati di sparare a tutti quelli che avvistavano, a patto che non fossero soldati israeliani”, hanno testimoniato i militari di Tsahal. Ad esempio un militare israeliano, che ha deciso di restare anonimo, ha raccontato: “L’esercito distribuiva dei volantini ai palestinesi per dichiarare che chiunque fosse rimasto nelle aree in cui entrava il nostro esercito avrebbe firmato la sua condanna a morte”. Un altro militare ha riferito che era dato per scontato che qualunque edificio palestinese venisse utilizzato dalle forze israeliane sarebbe poi stato distrutto dai bulldozer, senza alcun ragione.
Un carrista ha denunciato che un comandante di un’unità di vari mezzi corazzati gli ordinò di sparare contro il campo profughi e la cittadina di al Bureij, a sud di Gaza City. Quando lui chiese dove puntare il cannone gli fu risposto di scegliere l’edificio che preferiva.
Israele si è difesa dalle accuse ricordando inoltre che gli abitanti delle case prese di mira venivano “avvisati” in anticipo attraverso il roof knocking, il lancio di un missile senza carica esplosiva sui tetti dei palazzi, al quale seguiva l’arrivo dei missili veri e propri spesso dopo pochi minuti o addirittura secondi. Mediamente, denunciano le testimonianze raccolte da Breaking the silence, tra il lancio dell’avvertimento e quello delle micidiali bombe passavano tra i trenta e i sessanta secondi, un tempo di gran lunga insufficiente per permettere agli abitanti degli edifici colpiti di fuggire.
Breaking the silence ha anche condannato l’esercito per aver sparato contro centri abitati colpi di mortaio. In una zona densamente popolata come la Striscia di Gaza, che ospita circa 1,8 milioni di persone in una superficie di appena 360 chilometri quadrati (una delle zone abitate con la maggiore densità del mondo intero), l’uso di armi di tale potenza rende le morti tra i civili inevitabili e la distruzione di infrastrutture come scuole, ospedali, strade certa.
Come se non bastasse – ma ci sembra assai prevedibile – Breaking the silence ha dichiarato che le autorità israeliane hanno cercato di rallentare e depistare l’indagine. Oren Hazan, un deputato del Likud, il partito di destra del premier Benjamin Netanyahu, si è addirittura offerto di testimoniare, cercando di dare una falsa versione dei fatti per screditare così l’organizzazione.
L’uscita del rapporto di Breaking the silence segue la pubblicazione dell’inchiesta da parte delle Nazioni Unite, che ha accusato Israele di aver bombardato alcune scuole delle Nazioni unite a Gaza tra l’8 luglio e il 26 agosto, causando la morte di almeno 44 persone.

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