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L’offensiva nazista in Donbass mette in crisi anche la Merkel

Non fanno gli straordinari militari ucraini e mercenari stranieri nel Donbass: il presidente Pëtr Porošenko ha dichiarato che, al momento, cinquantamila uomini si trovano nella zona delle “operazioni antiterrorismo” e “combattono in tre turni”.

La dichiarazione, mentre ammette implicitamente il consecutivo fallimento di ogni nuova mobilitazione lanciata dal governo di Kiev, che costringe le truppe al “tempo pieno” a rotazione, la dice tutta sul carattere della nuova operazione lanciata dai governativi contro le milizie e che, da mercoledì scorso, sta investendo un’intera fascia di centri abitati attorno a Donetsk, mentre sembra preludere a un’offensiva ben più massiccia sullo stesso capoluogo della DNR, la Repubblica Popolare di Donetsk.

E’ del resto lo stesso rappresentante ufficiale delle forze armate ucraine per le operazioni nel Donbass, Andrej Lysenko, a esplicitare il piano, affermando che le truppe sono state messe in stato di massima allerta e che Kiev non ha alcuna intenzione di allontanare le artiglierie pesanti dall’area di Marjnka e di Krasnogorovka, ambedue centri a pochi chilometri a ovest di Donetsk, su cui si erano maggiormente riversati i tiri delle artiglierie e dei mortai pesanti governativi lo scorso 3 giugno. La risposta delle milizie nell’area di Marjnka, secondo le parole del presidente della DNR, Aleksandr Zakharčenko, avrebbe provocato trecento morti e oltre mille feriti tra le truppe ucraine; cifre confermate da un soldato ucraino fatto prigioniero dalle milizie. Tra i miliziani, si conterebbero circa 20 morti.

E durante la notte scorsa sono ripresi i tiri delle artiglierie ucraine su Donetsk, mentre dalla mattinata di oggi, secondo le dichiarazioni del vice Ministro della difesa della DNR, Eduard Basurin, confermate dagli osservatori Osce, razzi Grad stanno cadendo su Telmanovo (il nome fu dato al paese negli anni ’30 in onore del capo dei comunisti tedeschi Ernst Thälmann, Thälmann,  assassinato in un lager nazista), a sudest di Donetsk: un bambino è morto e tre civili sono rimasti feriti.

Che la situazione nel Donbass dovesse nuovamente sfociare in ulteriore intensificarsi dell’offensiva ucraina e che il cessate il fuoco sottoscritto a Minsk il febbraio scorso potesse servire soltanto a rinsaldare le posizioni, nessuno degli osservatori internazionali se lo è mai nascosto. L’interrogativo è semmai sempre stato quello: in quale momento gli sponsor occidentali avrebbero accordato a Kiev il via libera a nuove operazioni in grande stile. Le opzioni politiche per una soluzione nel Donbass vengono d’altronde continuamente messe da parte dalla leadership ucraina.

Al blocco economico, energetico, di assistenza sociale e pensionistica delle due Repubbliche Popolari, si è aggiunto nelle ultime ore il blocco dell’acqua nella Repubblica di Lugansk decretato dal rappresentante militare di Kiev Ghennadij Moskal, insieme all’annuncio dell’inizio di una “guerra comunale”. “Agiremo secondo il principio di Ostap Bandera: di sera la luce, al mattino l’acqua”, ha detto Moskal. Non ci meraviglieremmo certamente se i tutori europei della democrazia passassero sotto silenzio simili impostazioni adottate dagli odierni discepoli del nazismo ucraino di 70 anni fa. E, in prima persona, anche oggi il presidente Porošenko ha perentoriamente escluso ogni ipotesi di referendum generale sull’indipendenza del Donbass, ammettendo solo, eventualmente, un possibile allargamento dei poteri locali.

Di contro, Porošenko ritiene possibile un referendum sullo status del Donbass, “per chiedere agli ucraini come vedono il futuro del Donbass all’interno dell’Ucraina”. E’ chiaro che, con queste premesse, ogni approccio politico appare amputato a priori e Kiev non dà segno di puntare su altro che una strategia di annientamento delle Repubbliche Popolari di Donetsk e di Lugansk, una volta ottenuto il definitivo consenso di Bruxelles e di Washington che però, al momento, sembra incagliato in qualche resistenza, soprattutto tedesca.

Pare infatti che Angela Merkel, d’accordo con il francese Hollande, abbia intenzione di tornare a coinvolgere Mosca nel G7 proprio sulle questioni della crisi ucraina. L’approccio appare alquanto singolare: da un lato si accusa da ogni parte – con maggior virulenza, ovviamente, da parte di Kiev, delle capitali baltiche e di Washington – la Russia di essere coinvolta direttamente nel conflitto e si pianifica di usare la ripresa dei combattimenti nel Donbass quale pretesto per proseguire nella politica delle sanzioni; dall’altro, si chiede che Mosca “faccia pressioni” sulle milizie, di fronte all’ennesimo fallimento dell’attacco ucraino.

Quello della “aggressione russa” o del “pericolo di un’aggressione russa” è ormai un tema fisso dei dirigenti ucraini e dei loro protettori statunitensi. Porošenko, nella stessa conferenza stampa di oggi, ne ha una volta di più “mostrato le prove”, parlando di un combattente russo fatto prigioniero dopo l’attacco governativo su Marjnka. Eduard Basurin ha ammesso il fatto, dichiarando che si tratta di un “combattente delle nostre forze armate. Noi non abbiamo mai negato che, dalla nostra parte, combattano anche cittadini russi; ma essi lo fanno volontariamente, giungendo qua di propria in iniziativa”.

Il tema del “coinvolgimento russo” in Ucraina e della mano di Mosca nella ripresa dei combattimenti sembra debba essere l’argomento con cui, secondo molti osservatori, si deciderà la conferma delle sanzioni antirusse fino al gennaio 2016, proprio in occasione del vertice UE che si tiene nel fine settimana in Germania. E’ questa l’opinione anche del portavoce del Presidente russo, Dmitrij Peskov, che aggiunge “Anche in passato, sullo sfondo di importanti momenti internazionali, ripetutamente la parte ucraina ha intrapreso azioni simili per accrescere la tensione”. Peskov ha anche risposto alle parole di Porošenko sul cittadino russo fatto prigioniero a Marjnka, ribadendo l’assurdità delle grida ucraine sulle “migliaia di soldati russi” nel Donbass e ha invece commentato la legge approvata in questi giorni dalla Rada sulla “legalizzazione” di combattenti stranieri nelle file dell’esercito ucraino. “Nelle condizioni di instabilità nel sud-est dell’Ucraina” ha detto Peskov, “è senza dubbio molto importante evitare qualsiasi passo che possa portare a una escalation o faccia il paio con azioni provocatorie, un deficit delle quali, purtroppo, non è dato vedere da parte di Kiev”.

 Ma quello delle “migliaia di soldati russi” nel Donbass è solamente uno dei pretesti, certo il più tragico – per le migliaia di civili del Donbass che continuano a morire sotto i razzi e le cannonate ucraine – dell’offensiva Nato e statunitense per accerchiare i confini russi. Ne è testimonianza il rapporto USA sulla possibilità dello schieramento di ulteriori missili, con base a terra in Europa e Asia, puntati contro il potenziale nucleare di Mosca. Secondo la relazione del presidente del Comitato degli Stati maggiori riuniti delle Forze armate USA, generale Martin Dempsey, alcuni passaggi della quale sono stati divulgati dalla Associated Press, Washington giustificherebbe la decisione come risposta al fatto che Mosca non starebbe realizzando pienamente l’accordo sull’eliminazione dei missili a medio e corto raggio.

Da parte sua, Mosca respinge tali accuse come “infondate” e il Direttore del Dipartimento del Ministero degli Esteri per la non proliferazione e il controllo sugli armamenti, Mikhail Uljanov ha dichiarato che “Gli Stati Uniti rifiutano di sostenere tali accuse con fatti concreti o, piuttosto, non possono. Si ha l’impressione che l’obiettivo sia quello di cercare di screditare la Russia e presentarla quale Stato che viola gli obblighi internazionali”.

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