Menu

Siria: la mossa del cavallo di Mosca

Gli Stati Uniti di nuovo spiazzati. E non tanto perché – o almeno non solo – a guidare l’ex superpotenza unica è un ondivago e spesso titubante Barack Obama, ma perché da quando gli eserciti di Washington scorazzavano in lungo e in largo sul globo appena liberato dall’Unione Sovietica la geopolitica e gli equilibri internazionali sono cambiati. Non poco. Le potenze – mondiali e regionali – in campo in una competizione internazionale che si fa sempre più feroce e affollata sono sempre più numerose, e più aumentano di numero più il ruolo e l’egemonia statunitense si indeboliscono. 

Solo pochi anni fa Washington, che stava scaldando i motori dei suoi bombardieri pronti insieme a quelli di Parigi a colpire le città siriane, fu bloccata dall’intervento di Russia e Cina, che non si limitarono alle barricate diplomatiche come in passato ma inviarono missili e radar all’esercito siriano e navi da guerra nel Mediterraneo. Washington, capita l’antifona, dovette cambiare tattica, suscitando le ire di Parigi che pretendeva di dare il via alla campagna militare come se niente fosse.
L’amministrazione statunitense decise allora di aggirare l’ostacolo attraverso un massiccio finanziamento della cosiddetta “opposizione siriana moderata”. Se non possiamo bombardare massicciamente la Siria e liberarci del regime siriano, pensarono gli strateghi obamiani, allora al nostro posto facciamo combattere i ribelli. In Iraq e in Afghanistan le ‘truppe di terra’ locali avevano funzionato, avrebbe funzionato anche per Damasco.
E così miliardi di dollari in armi e aiuti cominciarono letteralmente a piovere su gruppi assai eterogenei della ribellione al regime di Assad; non solo quelli liberali o islamici, ma anche e soprattutto a quelli islamisti e anche jihadisti.
E così nel giro di pochi mesi gruppi fino ad allora insignificanti – come Al Nusra, la sezione locale di Al Qaeda e poi il famigerato Stato Islamico – divennero delle grandi macchine da guerra e degli ingombranti e recalcitranti soggetti politici e militari, ingrossate dai soldi e dalle armi concesse dall’amico d’oltreoceano, così come dalle petromonarchie del Golfo. I nuovi attori della scena, divenuti punto di riferimento per migliaia di foreign fighters jihadisti o di mercenari e sbandati in cerca di bottino provenienti da tutto il pianeta, presto cominciarono ad attaccare o fagocitare il braccio armato del coordinamento delle opposizioni siriane, l’Esercito Siriano Libero, che di fatto non esiste più. Negli ultimi anni la maggior parte delle brigate dell’Esl, migliaia di miliziani armati e addestrati da Usa e Turchia, sono passati armi e bagagli alle formazioni jihadiste, o si sono sbandati trattenendo magari qualcosa per se.
Quando le milizie di Al Baghdadi hanno cominciato a dilagare, all’inizio dell’estate scorsa, facendo strage di minoranze etniche e religiose e arrivando a pochi chilometri dalla capitale irachena, a Washington e nelle cancellerie europee si sono finalmente resi conto che qualcosa non era andato per il verso giusto, e così è nata la cosiddetta ‘coalizione internazionale’ contro l’Isis che ha imbarcato anche alcuni dei paesi che, più o meno direttamente, continuano a foraggiare Daesh e altri gruppi fondamentalisti. D’altronde a Washington non hanno nessuna intenzione di eliminare lo Stato Islamico dalle cartine del Medio Oriente. Se così fosse in più di un anno di bombardamenti con caccia e droni le milizie jihadiste non occuperebbero ancora un territorio grande quasi quanto l’intera Italia. Evidentemente i capofila della ‘coalizione’ capeggiata dagli Stati Uniti vogliono ridimensionare, indebolire Daesh, per evitare che prenda il sopravvento, ma considerano la sua sopravvivenza utile a tenere in scacco un Medio Oriente destabilizzato, tribalizzato e gettato nel caos, come da tradizionale ‘divide et impera’.
Inoltre Washington non detta più da tempo legge da quelle parti: la Turchia da una parte e il Consiglio di Cooperazione del Golfo – le petromonarchie – dall’altra sono diventati negli ultimi anni degli ‘alleati’ sempre più capricciosi e pretenziosi, che al legame con Daesh non vogliono rinunciare affatto. Per non parlare di Israele, contento di poter contare sui jihadisti sunniti per mettere in scacco l’odiato Iran e i suoi alleati in Siria, Libano e Iraq. Poi, durante l’estate, Obama ha fatto infuriare i suoi partner mediorientali sempre più recalcitranti e indipendenti siglando un accordo sul programma nucleare di Teheran visto come fumo negli occhi tanto a Riad quando a Tel Aviv.
Per cercare di riconquistare ruolo ed egemonia in Medio Oriente Washington ha addirittura dovuto affidarsi (seppur senza grande convinzione) alla resistenza curda, l’unica a battersi veramente insieme agli sciiti di Teheran e di Hezbollah – e naturalmente alle forze armate siriane – contro i tagliagole di Daesh. Salvo poi ritrovarsi la Turchia scatenare contro il Pkk una campagna repressiva senza precedenti, inviando anche qualche segnale minaccioso al Pyd curdo siriano e mettendo esplicitamente i bastoni tra le fragili ruote della strategia statunitense; non contenta, Ankara ha tentato di approfittare della evidente debolezza di Washington pretendendo, in cambio del supporto delle sue forze armate alla coalizione contro l’Isis un via libera all’invasione del nord della Siria che è venuto solo in parte.
E’ in questo quadro che si inserisce la ‘mossa del cavallo’ di Mosca che è tornata ad una iniziativa militare diretta in Medio Oriente per la prima volta dagli anni ’80.
La Russia è ormai da alcuni anni al centro di un muro contro muro col blocco statunitense e anche con quello europeo che non ha cercato e che anzi subisce in condizioni di inferiorità e difficoltà. Finora tutti i segnali di ricomposizione che Putin ha inviato a Washington e a Bruxelles – ad esempio per quanto riguarda lo scenario ucraino – sono caduti nel vuoto, finché Mosca non si è resa conto di poter approfittare del caos creato in Medio Oriente dagli apprendisti stregoni americani per tentare di cambiare i rapporti di forza. Una mossa, al contrario di quanto credono in molti, difensiva, e non offensiva.
Nel giro di poche settimane l’amministrazione russa è passata al contrattacco diplomatico offrendo a Washington di impegnarsi assieme nel contrasto militare dello Stato Islamico in Siria, accennando oltretutto alla possibilità di un ricambio al vertice del regime siriano seppur una volta portato a casa l’obiettivo della sconfitta di Daesh, e non prima come pretendono i ‘coalizzati’ ai quali preme, è evidente, più la destituzione di Assad che la distruzione del cancro jihadista.
Nel frattempo Mosca ha dispiegato sul terreno un piccolo ma qualificato contingente. Allo scopo di rafforzare le difese di Damasco e Latakia, le ultime due grandi città sotto il controllo del governo, ed evitare che cadano sotto la pressione congiunta delle varie forze combattenti eterodirette. Ma anche e soprattutto per poter trattare sul futuro della Siria e dell’intera regione a partire da una posizione di forza. Se Washington può contare nell’area su forze eterogenee, in competizione ed estremamente deboli, Mosca ha lavorato in queste settimana alla creazione di una coalizione alternativa a quella capeggiata da Obama, che comprende l’Iran, Hezbollah e anche il governo iracheno, stufo di ricevere promesse di sostegno mai rispettate da parte “dell’amico americano”. Non è un caso che ieri l’agenzia russa Interfax abbia messo in rilievo il fatto che i bombardamenti realizzati in Siria dai caccia russi siano stati coordinati dal centro di comando unificato creato a Baghdad sotto il controllo del ministero della Difesa russo.
Oltretutto appare evidente che l’operazione di Mosca goda anche del placet di Pechino, che formalmente non si è ancora mossa ma che secondo numerose indiscrezioni starebbe fornendo al governo siriano sostanziosi aiuti e addirittura l’invio di alcune squadre di militari altamente qualificati.
Se ieri il Washington Post accusava Putin di ‘improvvisazione’ affermando che Mosca non avrebbe una strategia di ampio respiro né la capacità di influenzare in modo sostanziale la crisi in corso in Medio Oriente, dopo i primi bombardamenti dei caccia russi su Homs, Hama e Latakia l’accusa di europei ed americani è cambiata. Ora Putin è accusato di aver bombardato non solo e non tanto le postazioni di Daesh, ma anche e soprattutto alcuni gruppi della cosiddetta ‘opposizione moderata’ siriana. Una bestemmia per chi pensa – e a Washington e Londra sono in molti – che per indebolire l’Isis ma anche per continuare a perseguire la caduta di Assad occorrerebbe puntare a rafforzare Al Qaeda e altre formazioni jihadiste ‘meno estremiste’ inquadrate in ciò che rimane dell’Esl. Gli apprendisti stregoni sostengono ora che Al Qaeda non sia poi così pericolosa, che si sia progressivamente moderata, e che rappresenti oggi un competitore utile ai tagliagole di Al Baghdadi. Ma il mondo non si era mobilitato solo pochi anni fa per stanare i capi di Al Qaeda sulle montagne del Pakistan e dell’Afghanistan? Non abbiamo fatto una guerra, bombardando e occupando Kabul, per cacciare i barbari talebani? I droni di Washington non colpiscono da anni le cellule di Al Qaeda e di altre organizzazioni jihadiste sorelle in Somalia o nello Yemen nel frattempo invaso dai sauditi?
E’ chiaro che di fronte all’opinione pubblica internazionale, anche quella meno accorta, gli strampalati e contraddittori argomenti propagandistici della ‘coalizione internazionale contro l’Isis’ perdono sempre più credibilità.
Ora occorrerà capire se, dopo aver spiazzato Washington, Mosca vorrà tendere la mano ad Obama, e se questi vorrà accettare l’offerta di fondere le due coalizioni internazionali operanti in Medio Oriente, o almeno di coordinarne l’attività, pur di non venire completamente estromessa dal gioco. Gli Stati Uniti dovranno cedere su molti punti, ma la Russia ha già fatto capire che non avrà un atteggiamento intransigente, anzi.
Comunque vada, Washington perderà: se accetterà di giocare al gioco di Putin la distanza e la competizione con i suoi ex alleati nella regione – Israele, Turchia, petromonarchie – si allargherà ulteriormente (Riad ha addirittura minacciato un’invasione della Siria); se invece riproporrà il muro contro muro con Mosca si troverà ad operare in un’area in cui ha poche pedine da muovere al contrario dei suoi avversari. 

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *