Può sembrare sorprendente che mentre si bombardano pozzi e collegamenti petroliferi in medio Oriente, nel cuore dell’area che custodisce i due terzi delle riserve accertate di idrocarburi, in una escalation bellica dai confini ignoti che rischia di coinvolgere pienamente tutti i maggiori produttori, il prezzo del greggio scenda. Altre volte era bastato molto meno per farlo schizzare verso le stelle.
Cos’è cambiato? In primo luogo il fatto che la crisi globale si va aggravando, con Cina e paesi emergenti che riducono i ritmi di crescita e quindi di consumo energetico. Le attese di espansione continua dei consumi petroliferi sono andate così a ramengo, spiazzando i produttori – tutti – che avevano investito molto per aprire nuovi impianti di estrazione anche su giacimenti molto meno “facili” da raggiungere, quindi con costi più alti.
È la stessa ragione che sta sconquassando il comparto dello shale oil, soprattutto neli Stati Uniti, che ha – sì – permesso agli Usa di ritrovare temporaneamente l’indipendenza energetica, ma al prezzo di investimenti enormi, finanziati a debito, calcolati su prezzi molto più alti degli attuali (il break even del petrolio di scisto varia, a seconda dei territori, dai 50 agli 80 dollari al barile, mentre il prezzo attuale della qualità migliore, il Brent, oscilla intorno ai 40).
In ultimo, la fine delle sanzioni occidentali contro l’Iran rimette sul mercato un produttore che fin qui aveva estratto poco, esportando quasi soltanto verso la Cina e pochi altri paesi.
Aggiungiamoci la politica folle dell’Arabia Saudita negli ultimi due anni, che aveva cercato di proposito il crollo del prezzo per danneggiare contemporaneamente la Russia e lo shale oil Usa, e abbiamo un quadro abbastanza delineato: l’offerta di greggio supera stabilmente la domanda, gli impianti di stoccaggio sono quasi al limite della capacità (85-90%, è stato calcolato dal ministro del petrolio venenezuelano), dunque il prezzo non può che tendere al ribasso.
Il vertice dell’Opec convocato in questi giorni poteva avere la funzione di cambiare relatvamente la tendenza, ma avrebbe dovuto partorire una decisione unanime sulla riduzione della produzione. E invece ha prodotto un comunicato surreale da cui per la prima volta sono scomparsi tutti i parametri che regolano il mercato petrolifero: quote nazionali di produzione, forchetta di prezzo desiderata, output complessivo del cartello, ecc.
In pratica, i tredici paesi dell’Opec procedono ognuno per proprio conto, riflettendo l’impossibilità politica di conciliare interessi non solo divergenti, ma ormai charamente contrapposti anche sul piano militare (sia pure attraverso “bracci armati” non immediatamente riconducibili ai paesi-madre). Dell’Opec fanno infatti parte Arabia Saudita, Emirati, Qatar e Kuwait, che finanziano più o meno apertamente una folla di milizie jihadiste in guerra aperta con milizie o eserciti a maggioranza sciita (in Iraq e Siria, sostenute anche militarmente dall’Iran; in teoria ne fa ancora parte la Libia, ma non si capisce chi possa legittimamente rappresentarne gli interessi; così come anche la Nigeria sconvolta da Boko Haram e il Venezuela perennemente sotto minaccia di golpe da parte statunitense.
Difficile, se non impossibile, far convergere interessi così contrapposti in una politica commerciale in qualche misura unitaria. Il petrolio è ora sia un bottino di guerra che un’arma. Il cartello si sfalda, in attesa che dal conflitto emergano nuovi equilibri. Sempre che il conflitto non divenga distruttivo per la maggior parte dei soggetti interessati…
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