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Isis: in un mondo senza frontiere, sono lontani i giorni in cui potevamo combattere guerre straniere e rimanere sicuri a casa nostra

All’inizio del 2014 l’Isis ha pubblicato uno dei suoi primi video. Perlopiù sconosciuto in Europa, non aveva né la professionalità agile e all’avanguardia dei suoi successivi video sulle esecuzioni né l’inquietante musica “Nasheed” che accompagna la maggior parte della sua propaganda. Invece una camera a mano ha mostrato un bulldozer che abbatteva un bastione di sabbia che aveva segnato il confine tra Iraq e Siria. Quando la macchina ha distrutto la barricata di terra, la fotocamera si è abbassata su un manifesto scritto a mano che si trovava nella sabbia. Recitava (queste parole): “Fine di Sykes-Picot”.

Come centinaia di migliaia di arabi in Medio Oriente, per i quali Sykes-Picot è un’espressione quasi cancerogena, ho guardato questo primo video dell’Isis a Beirut. Le sanguinose conseguenze dei confini che il diplomatico inglese Mark Sykes e quello francese François Georges-Picot tracciarono in segreto durante la Prima Guerra Mondiale – che originariamente assegnavano alla Francia la Siria, il Monte Libano e il nord dell’Iraq, e alla Gran Bretagna la Palestina, la Cisgiordania e il resto dell’Iraq – sono note ad ogni arabo, cristiano e musulmano e certamente a ciascun ebreo di questa regione. Rimossero i governatorati del vecchio Impero Ottomano ormai morente e crearono nazioni artificiali in cui confini, torri di guardia e colline di sabbia separavano tribù, famiglie e popoli. [I confini tracciati da Sykes e Picot] erano una produzione coloniale anglo-francese.

La stessa notte in cui vidi questo video dell’Isis mi trovavo in visita al leader druso libanese, Walid Jumblatt. “La fine di Sykes-Picot!” mi urlò. “Spazzatura”, sibilai io. Ma ovviamente io mi sbagliavo e Jumblatt aveva ragione. Aveva immediatamente colto come l’Isis ottenesse simbolicamente – ma con una velocità mozzafiato – quello che così tanti arabi avevano cercato per quasi 100 anni: il disfacimento dei falsi confini con cui i vincitori della Prima Guerra Mondiale – perlopiù i britannici e i francesi – avevano diviso il popolo arabo. Era una nostra costruzione coloniale – non sono state solo le frontiere che gli abbiamo imposto ad avvelenare le loro vite, ma anche le amministrazioni e le false democrazie che abbiamo instaurato in maniera fraudolenta e i mandati e le amministrazioni fiduciarie che ci permettevano di dominarli. Colin Powell ha reclamato proprio un’amministrazione fiduciaria sul petrolio iracheno prima dell’illegale invasione anglo-americana del 2003.

Abbiamo imposto re agli arabi – confezionammo un 96 per cento al referendum in Iraq a favore del Re Faisal, appartenente alla stirpe Hashemita [la famiglia reale che tutt’ora regna in Arabia Saudita e che ha regnato in Iraq dal 1921 al 1958, ndr] – e poi li abbiamo riforniti di generali e dittatori. I popoli della Libia, della Siria, dell’Egitto e dell’Iraq – che sono stati invasi dalla Gran Bretagna nel XIX secolo – hanno ricevuto in dono governi mendaci, polizia brutale, giornali bugiardi e elezioni farsa. Mubarak raggiunse perfino Faisal con un’epica vittoria elettorale al 96 per cento. Per gli arabi “democrazia” non significava libertà di parola e libertà di eleggere i propri leader, ma si riferiva piuttosto alle “democratiche” nazioni occidentali che continuavano a supportare i crudeli dittatori che li opprimevano.

Perciò le rivoluzioni arabe che hanno eroso il Medio Oriente nel 2011 – dimenticatevi delle “Primavere Arabe”, una creatura di origine Hollywoodiana – non chiedevano democrazia. I manifesti nelle strade del Cairo, di Tunisi, di Damasco e dello Yemen chiedevano dignità e giustizia, due prodotti che certamente non abbiamo cercato per gli arabi. La giustizia per i palestinesi, o per i Curdi o per gli armeni annientati del 1915, o per tutti i popoli arabi sofferenti – non era un qualcosa che fosse affidato a noi. Ma penso che avremmo dovuto approfondire molto di più la nostra analisi sui cambiamenti titanici occorsi nel 2011.

Nei miei reportage sulle sollevazioni le ho attribuite alla accresciuta istruzione e ai maggiori viaggi fatti dalla comunità araba attraverso il Medio Oriente. Benché riconoscessi il potere dei social media e di internet, c’era qualcosa di più complicato all’opera. Gli arabi si sono svegliati da un sonno profondo. Hanno rifiutato di essere ancora i “figli” di figure patriarcali – Nasser e Sadat Mubarak e Assad e Gheddafi e, nei sui primi anni, Saddam. Si sono risvegliati e hanno scoperto che i propri governi erano composti di bambini, uno dei quali – Mubarak – aveva 83 anni. Gli arabi volevano possedere le proprie città e i propri villaggi. Volevano possedere il posto in cui vivevano, il che comprendeva la gran parte del Medio Oriente.

Ma ora penso che mi sbagliassi. Col senno di poi, ho tristemente frainteso che cosa rappresentassero quelle rivoluzioni. Un indizio, forse, sta nell’importanza dei movimenti sindacali. Dove i sindacati, con il loro socialismo transnazionale e le credenziali anticoloniali, erano forti – in Egitto e in Tunisia – il bagno di sangue rivoluzionario è stato molto minore che in nazioni che avevano del tutto vietato il sindacalismo – la Libia, ad esempio – o che avevano aggregato il movimento sindacale al regime, cosa che era avvenuta da tempo in Siria o in Yemen. Il socialismo ha attraversato i confini. Tuttavia perfino questo non spiega gli eventi del 2011.

Ora credo che ciò che veramente accadde quell’anno fu una convinzione assai più radicata negli arabi; ossia che le istituzioni che noi occidentali abbiamo costruito per queste persone 100 anni fa erano del tutto prive di senso, che la statualità che abbiamo successivamente assegnato alle nazioni artificiali con confini parimenti artificiali era priva di significato. Stavano rifiutando l’intera costruzione che gli avevamo imposto. Non cambia l’equazione il fatto che l’Egitto, dopo un breve periodo del governo eletto dei Fratelli Musulmani, sia ritornato ad un patriarcato militare – così come non lo cambia la successiva e assolutamente prevedibile acquiescenza occidentale riguardo a questo. Benché le rivoluzioni – almeno all’inizio – siano largamente rimaste all’interno dei confini nazionali, questi confini cominciarono a perdere il loro significato.

Hamas a Gaza e i Fratelli Musulmani divennero una cosa sola, la frontiera fra Sinai e Gaza cominciò a sgretolarsi. Poi il collasso della Libia rese aperti, e perciò inesistenti, i confini precedentemente fissati da Gheddafi . Le sue armi, incluse quelle chimiche, furono vendute ai ribelli in Egitto e Siria. La Tunisia, che adesso pensiamo sia la cocca dei nostri cuori occidentali per la sua adesione alla “democrazia”, è ora a rischio di implosione perché i suoi confini con la Libia e l’Algeria sono aperti al trasbordo di armi verso i gruppi islamici. Il controllo dell’Isis di queste entità prive di frontiere significa che la sua stessa esistenza transnazionale è garantita, da Fallujah in Iraq fino ai confini di Aleppo in Siria, dalla Nigeria al Niger e al Chad.

L’Isis può pertanto indebolire l’economia di ogni paese attraverso cui passa, far saltare in aria un aereo russo in partenza da Sharm el-Sheikh, attaccare il museo del Bardo a Tunisi o le spiagge di Sousse [luogo di un recente attacco terroristico in Tunisia, ndr]. C’è stato un tempo – quando i terroristi islamici attaccarono la sinagoga ebraica nell’isola tunisina di Djerba nel 2002 – in cui il turismo poteva continuare. Ma questo succedeva quando la Libia ancora esisteva. In quei giorni la polizia di Ben Ali era in grado di controllare la sicurezza interna della Tunisia; l’esercito era lasciato debole così che non potesse mettere in atto un colpo di stato. Perciò oggi, ovviamente, il quasi impotente esercito tunisino non può difendere le sue frontiere.

La comprensione di questo nuovo fenomeno da parte dell’Isis è stata anteriore alla nostra. Ma il fatto che l’Isis abbia realizzato che le frontiere erano in sostanza indifese nell’era moderna ha coinciso con la disillusione popolare degli arabi verso le proprie nazioni inventate. La maggior parte dei milioni di rifugiati siriani e afghani che si sono riversati in Libano, in Turchia e in Giordania e poi a Nord verso l’Europa non intendono ritornare – mai più – in stati che li hanno delusi poiché certamente questi stati – nella testa dei rifugiati – non esistono più. Questi non sono tanto “stati falliti” quanto piuttosto nazioni immaginarie che ormai non hanno nessuno scopo.

Cominciai a capire questo quando, a Luglio, mentre stavo seguendo la crisi economica greca ho viaggiato verso il confine fra Grecia e Macedonia con Medici senza Frontiere. Questo è successo molto prima che la vicenda dei rifugiati arabi che stavano entrando in Europa attirasse l’attenzione dell’UE o dei media, nonostante gli annegamenti nel Mediterraneo fossero stati a lungo una tragedia a cadenza regolare sugli schermi televisivi. Aylan Kurdi, il bambino che sarebbe stato trovato annegato su una spiaggia turca, aveva ancora altri due mesi da vivere. Ma nei campi lungo il confine macedone c’erano migliaia di siriani e afghani. Venivano a centinaia attraverso i campi di grano, un esercito di vagabondi che avrebbero potuto essere in fuga dalla Guerra dei Cent’Anni, le donne con i piedi bruciati da cucine a gas esplose, gli uomini con le ferite lungo il corpo a causa dei colpi delle guardie di frontiera. Due di essi li conoscevo anche personalmente, fratelli provenienti da Aleppo che avevo incontrato due anni prima in Siria. E quando parlarono, mi resi conto che stavano parlando della Siria al passato. Parlavano di un “laggiù” e di “quella che una volta era casa”. Non credevano più alla Siria. Non credevano più nelle frontiere,

E, cosa molto più importante per l’occidente, chiaramente non credevano più nemmeno alle nostre frontiere. Sono passati attraverso le frontiere europee con la stessa indifferenza con cui hanno attraversato quelle dalla Siria alla Turchia o al Libano. Noi, i creatori delle frontiere del Medio Oriente, abbiamo scoperto che anche i nostri confini nazionali storicamente determinati non hanno significato per queste persone. Volevano andare in Germania o in Svezia e intendevano farlo camminando, tuttavia molti poliziotti sono stati mandati a picchiarli o inondarli di lacrimogeni in un vano tentativo di salvaguardare la sovranità nazionale delle frontiere dell’UE,

Il nostro shock – o meglio la nostra indignazione – nello scoprire che le nostre preziose frontiere non erano rispettate da queste armate di poveri, in gran parte musulmani, era in netto contrasto con la nostra allegra inosservanza delle frontiere arabe. Saddam è stato fra i primi a mostrare il suo odio di queste linee tracciate nella sabbia. Non gli importò nulla del diritto internazionale quando invase l’Iran nel 1980 – con un aiuto di intelligence da parte degli USA – o il Kuwait nel 1990, quando divelse la vecchia frontiera dell’Emirato e lo reclamò come provincia Irachena. Ma l’occidente ha lanciato così tanti attacchi aerei nei confini del Medio Oriente, a partire dalla liberazione del Kuwait nel 1991, che abbiamo ben poco bisogno di cercare  precedenti ora che le forze aree arabe stanno attraversando regolarmente i confini nazionali mediorientali insieme ai nostri cacciabombardieri,

A parte la nostra lugubre avventura afghana e la nostra invasione dell’Iraq del tutto illegalem nel 2003, la nostra aviazione, insieme agli aerei di varie pseudo-democrazie locali, sta bombardano da così tanto tempo la Libia, l’Iraq e la Siria che questo stato di cose è divenuto una routine, quasi la normalità, poco meritevole di un titolo in prima pagina. I sauditi stanno bombardando in Iraq, Siria e Yemen. I giordani stanno bombardando la Siria. Gli Emirati stanno bombardando lo Yemen. E ora i francesi stanno bombardando la città siriana di Raqqa perfino di più di quando hanno bombardato la città siriana di Raqqa due mesi fa – quando il Presidente francese François Hollande non ci aveva detto che la Francia era “in guerra”. Il punto, ovviamente, è che siamo diventati così abituati ad attaccare territori arabi – la Francia è divenuta così assuefatta a mandare i suoi soldati e le sue forze aeree in Africa e in Medio Oriente a colpire e bombardare coloro che ritiene i suoi nemici – che solo quando i musulmani hanno cominciato ad attaccare le nostre capitali abbiamo annunciato improvvisamente che eravamo “in guerra”.

Non c’erano codici rossi o codici arancioni nelle capitali Arabe. Esisteva uno stato permanente da codice rosso, la loro gente piegata sotto “leggi di emergenza” imposte da dittatori supportati dall’Occidente, una legislazione perfino più iniqua di quella che i nostri padroni politici europei ora desiderano imporci. Ovviamente dopo la catastrofe Irachena preferiamo usare le milizie locali perchè facciano il lavoro sporco al nostro posto. Perciò i Curdi sono diventati i nostri soldati di terra contro l’Isis, o le milizie irachene Shia o gli iraniani o – benchè non si debba ammetterlo – l’esercito siriano e gli Hezbollah libanesi.

L’Isis ha risposto in maniera strana a questa politica raccapricciante. Nonostante molte atrocità in Europa siano state commesse da uomini che sono stati presumibilmente “radicalizzati” in Siria, i killer sono stati di solito cellule locali; musulmani britannici in UK, musulmani francesi che erano cittadini francesi o residenti in Belgio. L’importanza di questo – l’Isis chiaramente intende provocare una guerra civile in Europa, specialmente fra l’enorme numero di musulmani francesi di origine algerina e la polizia e l’elite politica della Francia – è stata detta sussurrando. Addirittura la gran parte della copertura mediatica del massacro di parigi ha spesso evitato proprio la parola “musulmani”.

Cosi come qualsiasi incomprensione esprimiamo a proposito del mondo senza confini in cui gli arabi pensano di starsi muovendo non si collega in nessun modo alla nazione che più di tutte fra quelle del medio oriente è senza confini, Israele.

La dichiarazione di Arthur Balfour, che diede il supporto della Gran Bretagna ad una terra patria ebraica in Palestina durante la stessa guerra in cui Mr. Sykes e M. Georges-Picot stavano immaginando di dividere il Mondo arabo, ha anticipato nuovi confini all’interno della stessa Palestina, confini che oggi sono largamente non definiti. Le frontiere di Israele internazionalmente riconosciute sono ignorate dallo stesso governo israeliano, poiché esso non dichiarerà mai dove siano esattamente i suoi confini orientali. Si trovano lungo la prima linea di Gerusalemme vecchia? Si trovano lungo il grottesco muro israeliano che ha effettivamente rubato la terra palestinese della Cisgiordania? Lo stato di Israele include ogni colonia ebraica costruita su terra rubata ai palestinesi della Cisgiordania? Oppure si estende per tutta la lunghezza del fiume Giordano, distruggendo pertanto ogni stato palestinese che potrà mai esistere?

Quando gli israeliani chiedono ai loro critici di riconoscere il diritto ad Israele di esistere, gli si dovrebbe richiedere di dichiarare di quale particolare Israele stiano parlando: quelle legale riconosciuta dall’ONU – o “Israele proprio” come la chiamiamo – oppure un Israele che include l’intera Cisgiordania – o “Israele improprio”, come assurdamente non lo chiamiamo.

Il nostro supporto a un Israele che non ci ha detto quale sia la collocazione dei suoi confini orientali va in parallelo con il nostro rifiuto di riconoscere – a meno che non ci piacciano – i confini del mondo arabo. Siamo noi, dopotutto, che possiamo tracciare “linee nella sabbia” o “linee rosse”. Siamo noi Europei che decidiamo dove la civilizzazione inizi e dove finisca. È il primo ministro dell’Ungheria che decide esattamente fin dove spingere le sue forze per difendere “la civilizzazione cristiana”. Siamo noi occidentali che abbiamo la probità morale per decidere se la sovranità nazionale nel Medio Oriente debba essere rispettata o abusata.

Ma quando gli arabi stessi decidono di porre fine a tutto il pastrocchio e cercano il loro futuro nelle “nostre” terre, invece che nelle “loro” terre, questa politica non funziona più. È davvero incredibile quanto facilmente dimentichiamo che il più grande rompi-frontiere dei tempi moderni fosse un europeo, che voleva distruggere gli ebrei d’Europa ma che – dati i suoi commenti razzisti riguardo i Musulmani nel Mein Kampf – avrebbe potuto continuare il suo olocausto includendo gli arabi. Abbiamo persino il coraggio di chiamar gli assassini di Parigi “fascioislamici”, come il grande pseudo-filosofo francese Bernard-Henri Levy ha appena scritto sulla stampa. L’isis è indubbiamente nazista, ma nel momento in cui utilizziamo la parola “Islam” in questo contesto stiamo dipingendo una svastica sul Medio Oriente. Levy chiede più assistenza ai “nostri alleati curdi” perché l’alternativa è che “niente scarpe sul loro terreno significa più sangue sulle nostre”

Ma questo è quello che George W. Bush e Tony Blair ci hanno detto prima di marciare nel cimitero iracheno nel 2003. Ci viene detto di non avere pietà. Dobbiamo invadere il “loro” territorio per impedire che loro invadano il nostro. Ma sono passati i giorni in cui potevamo avere spedizioni straniere e aspettarci di essere sicuri a casa nostra. New York, Washington, Madrid, Londra, Parigi ci dicono tutte questa stessa cosa. Forse se parlassimo più di “giustizia” – corti, processi legali per gli assassini, per quanto ripugnanti essi possano essere, sentenze, prigioni, il riscatto per coloro che possono recuperare le loro anime perdute dal letamaio dell’Isis – saremmo un po’ più sicuri nel nostro continente regnante. Dovrebbe esserci giustizia non solo per noi o per i nostri nemici, ma per i popoli del Medio Oriente che hanno sofferto nel secolo passato il teatrino delle dittature e delle istituzioni di cartapesta che abbiamo creato per loro – e che hanno aiutato l’Isis a prosperare.

dal giornale inglese The Indipendent traduzione a cura di Francis Turner, della Redazione di Torino

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