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Russia-Turchia, lo scontro continua. Riad riunisce i ribelli sunniti

La tensione tra Russia e Turchia non accenna a calare dopo l’abbattimento di un caccia russo in territorio siriano da parte dell’aviazione militare di Ankara. 
Ieri pomeriggio si era sparsa la voce che la compagnia statale russa Rosatom avesse interrotto i lavori di realizzazione della prima centrale nucleare turca in costruzione ad Akkuya, nel sud del paese. Le voci erano state diffuse da presunte fonti del Ministero dell’Energia turco e riprese dalla stampa di Ankara, secondo le quali comunque si sarebbe trattato di una sospensione e non di una rottura del contratto siglato nel 2013 e del valore di ben 20 miliardi di dollari. La diffusione dei rumor, poi smentiti dallo stesso esecutivo islamista, è stata probabilmente pilotata proprio dal regime di Ankara per mandare un chiaro avvertimento a Mosca: se la contrapposizione tra i due paesi continuerà la Turchia è pronta a valutare delle possibili alternative per la realizzazione della centrale.
Intanto, mentre fonti iraniane accusano direttamente il regime turco di aver protetto e addirittura curato il califfo dell’Isis Al Baghdadi – che ora sarebbe fuggito in Libia – il governo di Ankara accusa la Russia nientemeno che di ‘pulizia etnica’ contro le popolazioni turcomanne e sunnite della Siria. Il premier turco Ahmet Davutoglu è di nuovo intervenuto in merito ai continui attacchi dell’aviazione russa – di ieri la notizia dell’uso anche di un sommergibile che ha lanciato missili al largo delle coste di Cipro – non solo contro le postazioni di Daesh, ma anche contro quelle di organizzazioni jihadiste che il regime turco non nega di sostenere, come appunto le milizie turcomanne ed altre ancora, inquadrate o meno in ciò che rimane dell’Esercito Siriano Libero. Davutoglu ha accusato Mosca di «voler espellere» le popolazioni dalla zona costiera della Siria per lasciare campo libero alle forze fedeli al governo di Damasco; «vuole fare pulizia etnica per proteggere il regime e le basi russe a Latakia e Tartus» ha detto il premier ai giornalisti stranieri nel corso di un incontro a Istanbul.
Che la Russia, come d’altronde le milizie libanesi e quelle sciite iraniane, non stia colpendo soltanto Daesh ma anche molte altre organizzazioni fondamentaliste ostili al governo di Damasco non è certo un segreto. Del resto i vari gruppi della galassia jihadista e salafita non sono certo più moderati di quelli che hanno giurato fedeltà al Califfo, a dispetto delle definizioni di comodo utilizzate dai governi occidentali o dalle petromonarchie che tendono a distinguere Daesh da tutti gli altri protagonisti della ‘ribellione’ esclusivamente sulla base del fatto che questi ultimi sono esplicitamente sostenuti dalle varie potenze del blocco sunnita o dalla stessa Turchia e quantomeno tollerati da Ue e Stati Uniti allo scopo di indebolire l’asse sciita e tentare di eliminare ‘manu militari’ il governo Assad.
Mentre la Turchia ha inviato militari nella regione irachena di Mosul, sta rafforzando i legami con il governo curdo del Nord dell’Iraq e prepara l’invasione del nord della Siria per evitare la disfatta delle milizie turcomanne e sunnite manovrate da Ankara, l’Arabia Saudita sta tentando di formare una propria coalizione di forze ‘ribelli’ per svincolarsi definitivamente dall’agenda statunitense, sempre più in conflitto con gli interessi del “Polo Islamico”, e per rispondere all’intervento militare russo che ha cambiato gli equilibri militari e politici tanto nel quadro siriano quanto nell’interno scenario mediorientale. 
In questi giorni un centinaio di rappresentanti di varie organizzazioni militari sunnite attive in Siria si sono riuniti a Riad su invito di Re Salman con l’intento di formare un blocco che possa contare di più sul terreno e soprattutto possa partecipare in maniera unitaria a eventuali negoziati sul futuro del paese scosso da una guerra civile iniziata nel 2011 e presto diventata una guerra per procura tra numerose potenze regionali e internazionali. L’iniziativa del regime saudita ha di fatto gettato una luce ancora più sinistra sulla strategia delle petromonarchie sunnite e sulle relazioni organiche tra queste e forze jihadiste ed estremiste non meno pericolose di Daesh. Esattamente quelle contro cui si concentrano gli sforzi militari delle forze lealiste siriane, dell’esercito russo e delle brigate di volontari sciiti provenienti da Iran, Libano e Iraq.
Attorno al tavolo presieduto dal ministro degli Esteri saudita Adel Al-Jubeir era infatti possibile scorgere i delegati di «Ahrar al-Sham», la milizia salafita vicina al al-Nusra (cioè il braccio siriano di Al Qaeda) gestita da Riad in coabitazione con la Turchia e che fa parte dell’alleanza denominata Esercito della Conquista (Jaysh al-Fatah). Al tavolo c’erano anche i rappresentanti di «Jaysh al-Islam», l’Esercito dell’Islam guidato da Zahran Alloush, fautore di un “proprio” Stato Islamico; e poi ancora la cosiddetta Alleanza del Sud, una dozzina di ufficiali della Coalizione nazionale siriana, il maggior gruppo dell’opposizione guidato da Khaled Khoja, i Comitati di coordinamento regionale, l’Esercito di liberazione siriano composto di disertori ed ex baathisti laici, e il piccolo movimento «Costruiamo lo Stato siriano» di Louay Hussein. Di fatto la stragrande maggioranza delle componenti sunnite della ribellione siriana – rinfoltite da migliaia di foreign fighters arrivati da tutto il mondo – sulla quale Riad e Ankara tentano di rafforzare il proprio controllo soprattutto cercando di ridurre frizioni e competizioni che finora hanno indebolito le opzioni sponsorizzate dai regimi arabi.
Questo mentre ad Hassake, località del Rojava nel nord della Siria, si riunivano alcune delle forze escluse dal vertice di Riad perché invise al regime wahabita oltre che a quello turco: le Ypg curde e alcune milizie locali arabe riunite nella coalizione denominata Fronte delle Forze Democratiche Siriane, corteggiata e sostenuta in vario modo tanto dall’amministrazione statunitense quanto da quella russa.
Nel frattempo l’amministrazione statunitense ribadisce la propria debolezza sullo scenario mediorientale. Nel corso di una audizione davanti alla Commissione Difesa del Congresso, il capo del Pentagono Ash Carter ha affermato: «La realtà è che siamo in guerra» e poi ha aggiunto: «Sono d’accordo con il generale Dunford che non abbiamo contenuto l’Isis».
Carter ha informato il parlamento di aver chiesto agli alleati di Washington un contributo maggiore alla lotta contro Daesh e di essere pronto ad inviare altri elicotteri Apache e consiglieri militari in Iraq. Ma ha anche ribadito che dispiegare «significative» forze di terra Usa in Siria e in Iraq è una cattiva idea perche «americanizzerebbe» il conflitto.
Sul terreno le milizie di Hezbollah hanno annunciato di aver colpito un convoglio del Fronte al Nusra nei pressi del villaggio di Arsal, in territorio libanese vicino al confine con la Siria. Nell’attacco sarebbe stato ucciso un comandante del gruppo jihadista legato ad al Qaeda – Abu Faras al Jaba noto col nome di battaglia di al Asmar – e altri otto altri miliziani islamisti. 

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