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Storico accordo Usa-Iran, via le sanzioni. Una brutta notizia per sauditi e Israele

E’ incredibile la ‘facilità’ e la ‘rapidità’ con cui, nel contesto attuale segnato dalla competizione globale e dalla crisi sistemica del capitalismo, alleati diventano nemici e viceversa. E’ il caso dell’Iran, da decenni tra i principali obiettivi delle guerre, delle trame e delle destabilizzazioni (che in parte continueranno, ovviamente) condotte in Medio Oriente dai vari paesi del fronte occidentale ma che, almeno formalmente, da ieri è uscito dalla lista nera di Usa e Ue per diventare se non un alleato, quantomeno un interlocutore.
Il rapporto positivo dell’Aiea, l’agenzia per l’energia atomica dell’Onu, sul rispetto da parte iraniana delle condizioni poste all’implementazione dell’accordo siglato a luglio sul programma nucleare di Teheran, ha permesso la revoca delle sanzioni decise dagli Usa, dall’Onu e dall’Ue contro il paese.

Una svolta che va sicuramente considerata un successo della diplomazia iraniana sotto il nuovo corso del ‘moderato’ Rohani, ma soprattutto il risultato della crescente debolezza nello scenario mediorientale degli Stati Uniti, costretti ormai a fare i conti con un numero sempre più alto di soggetti con aspirazioni indipendenti.
A quelli che tradizionalmente si oppongono ai suoi interessi e alle sue mire (come l’Iran, sottratto al dominio di Washington dalla ‘rivoluzione’ khomeinista del 1979) si aggiungono ormai i paesi che da pedine degli Stati Uniti si sono trasformati in potenze regionali con obiettivi e interessi propri, sempre meno coincidenti con quelli degli ex padrini occidentali. E’ il caso dell’Arabia Saudita e delle altre petromonarchie, della Turchia, e della stessa Israele. Paesi che stanno contrastando in maniera sia esplicita sia sotterranea – ricorrendo anche a provocazioni e provocando l’aumento della tensione nell’area, già alle stelle – il tentativo di accordo suggellato ieri tra Teheran e Usa, Ue e Onu, già preceduto dal pre-accordo sul programma nucleare iraniano e poi in autunno dall’inizio delle trattative sul futuro della Siria.
Basta vedere il massiccio tonfo delle borse delle capitali mediorientali per rendersi conto di chi nell’area gioisce e di chi invece stringe i pugni in attesa di vendetta. E’ evidente che il “rientro dell’Iran nella comunità internazionale” scontenta assai i sauditi e i suoi alleati (tra i quali, oggettivamente, rientra anche Tel Aviv) che sono impegnati ormai da anni in una strategia di accumulazione delle forze e di espansione che, mirando all’isolamento di Teheran, non esita a soffiare sul fuoco delle tensioni etniche e religiose in diversi paesi in cui il jihadismo e il fondamentalismo islamico sono stati fomentati e foraggiati allo scopo di destabilizzare e indebolire i governi, i paesi e le forze dell’asse sciita. Paesi che già con l’intervento militare russo di fine settembre hanno potuto tirare il fiato e che ora possono aspirare a recuperare stabilità e agibilità a livello politico ed economico grazie ad un accordo attraverso il quale Washington tenta di rientrare in gioco nell’area proprio a scapito di quelli che formalmente restano i propri alleati – appunto le petromonarchie, la Turchia e Israele – e del Califfato.
Alleanze mutevoli, relative, asimmetriche che cambiano a seconda del tema, del quadrante, dell’interesse momentaneo e che per ora vedono un riavvicinamento storico tra Washington e Teheran a detrimento del Polo Sunnita. Che, c’è da starne certi, reagirà quanto prima accelerando – o almeno tentando di farlo, viste le difficoltà economiche attuali – la corsa al riarmo e il rafforzamento dei propri apparati militari e istituzionali sovranazionali. 

Si tratta di un accordo importante ma parziale, che prevede l’eliminazione delle sanzioni solo in alcuni casi, e non in altri: resteranno quindi in vigore quelle Usa spiccate contro la sperimentazione dei missili balistici (che Obama ha addirittura deciso di inasprire) e quelle comminate a causa del “mancato rispetto dei diritti umani” da parte di Teheran. 
Perché Washington vuole assolutamente evitare che l’Iran cresca troppo e troppo in fretta e allunghi i propri tentacoli a scapito degli interessi statunitensi. Il che vuol dire che un certo grado di tensione tra Washington e asse sciita persisterà – sicuramente sul fronte siriano, e non solo – e che quindi le potenze sunnite avranno a disposizione spazi e contraddizioni in cui inserirsi.

Ma per ora sembrano andare in soffitta i peggiori cliché della propaganda statunitense che da anni rappresenta l’Iran e il suo governo come dei Satana in terra, dei rischi per la pace mondiale, delle bombe da disinnescare con tutti i mezzi. Da soli gli Stati Uniti – e l’Unione Europea, rappresentata ieri dalla signora Mogherini – non sono in grado di contrastare efficacemente un mostro – Daesh, Al Qaeda, il fondamentalismo jihadista in generale – che hanno largamente contribuito a far nascere e sviluppare e che ora sono i nostri nemici di un tempo a combattere: Teheran, i curdi, Hezbollah, l’Esercito Siriano. Ed in tempi di crisi nera (e infinita) in molti nel fronte occidentale hanno pensato che è davvero un peccato non poter fare affari con un gigante economico come l’Iran a causa di quelle sanzioni che dal 2006 hanno assai peggiorato le condizioni di vita di decine di milioni di iraniani ma per niente scalfito il potere del regime. Come ricorda giustamente il Sole 24 Ore, anche in casa nostra gli appetiti sono enormi: “Il nostro Paese ha visto sfumare miliardi di export per l’embargo a Teheran, da aggiungere alle enormi perdite della Libia. Un conto salato: punti di Pil ma anche costi umani, vittime, profughi, e svantaggi strategici che paghiamo con un indebolimento della proiezione all’estero. Ecco perché conquistare la prima fila in Iran non è banale. La concorrenza incalza: ieri a Teheran erano già atterrati gli emissari di Total e Shell”.

L’annuncio del raggiunto accordo tra il segretario di Stato Usa John Kerry e il ministro degli Esteri di Teheran Javad Zarif – frutto di mesi di trattative difficili – ha dato il via ufficiale ad una corsa agli investimenti occidentali nel paese che in molti casi è iniziata anche ben prima che l’Iran fosse scongelato dal fronte occidentale. Neanche l’arresto da parte dei Pasdaran, pochi giorni fa, di alcuni marines statunitensi a bordo di imbarcazioni che avevano violato le acque territoriali iraniane è riuscito a far naufragare l’accordo, annunciato ieri in pompa magna e accompagnato da uno scenografico scambio di prigionieri: sette cittadini iraniani detenuti negli Usa contro cinque agli arresti in Iran.
La fine della maggior parte delle sanzioni comporterà un roboante ingresso delle società petrolifere iraniane sul mercato mondiale – si parla di mezzo milione di barili di petrolio in più rispetto alla quota attuale – e il ministro dei Trasporti di Teheran ha già annunciato che il paese comprerà ben 114 Airbus.
Ma se il blocco delle imbarcazioni militari Usa nel Golfo Persico può essere considerato una provocazione dell’ala intransigente del regime di Teheran, non mancano le contrarietà all’accordo neanche all’interno dell’establishment americano: contrarie sono le lobby sioniste (scontente da quando Washington preferì attaccare l’Iraq invece dell’Iran), così come quelle legate alla destra repubblicana. “Ne vedremo delle belle” diceva qualcuno…

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