Tra i più grandi successi del capitale contemporaneo va certamente annoverata la distruzione della politica. Non della “classe politica”, considerata “purtroppo” sempre necessaria anche se quotidianamente bastonata in pubblico, ma proprio della politica come sfera della decisione discrezionale, non automatica, progettuale, improntata a interessi collettivi di lungo periodo. Insomma della libertà di scegliere, anziché subire.
La ragione principale di questa vittoria dovrebbe esser chiara: le forze economiche che gravano sugli ambiti decisionali raggiungibili dalla politica sono di gran lunga maggiori di quelle che la politica stessa può mobilitare a livello di singolo Stato. E là dove una costruzione sovranazionale – come l’Unione Europea – avrebbe pur potuto nutrire l’ambizione di giocare quasi alla pari col capitale multinazionale, quest’ultimo ha agito per tempo vincolando a sé tanto le singole istituzioni che il sistema politico nel suo complesso, innervando fin dal’inizio il processo di selezione tanto della classe politica sovranazionale quanto la tecno-burocrazia dei funzionari. Il sistema delle lobby, a Bruxelles, è enormemente più forte di qualsiasi sovranità popolare o criterio razionale. Lo si è visto, per esempio, con la decisione di raddoppiare i limiti di tolleranza per le emissioni di ossido d’azoto delle automobili, dopo che lo scandalo Volkswagen aveva mostrato l’incapacità delle tecnologie attuali di rispettare i limiti sanciti per legge (a tutela della salute collettiva, non certo per un arbitrario capriccio).
La politica come limite alla forza dei “mercati”, o almeno come contrappeso riequilibrante, è dunque morta e sepolta, con gran tripudio dei suicidi che ancora stanno a maledire “la kasta” senza neppure accorgersi che quella definizione ormai non coglie ormai più la realtà vera dei “decisori politici” oggi in campo: prestanome temporanei di interessi contingenti, particolari, a-sistemici. Ogni riferimento ai Renzi o alle Boschi è casuale ma pertinente.
Ma anche le Angela Merkel e i Barack Obama si stanno rivelando grigi impiegati, piuttosto che leader e statisti. Proprio mentre – dagli stessi “mercati” – aumenta la domanda di leader capaci di visione di lungo periodo, attenzione agli interessi sistemici (più che a quelli solo “nazionali” o aziendali), capaci di impostare a soluzione di problemi epocali come l’esodo dai paesi in guerra (o in miseria) e la recrudescenza esplosiva della crisi economica.
Le stesse forze che hanno ucciso la politica chiedono più lungimiranza politica. Le possibilità che la trovino sono inversamente proporzionali alla forza che hanno dimostrato di avere.
Anche questa è una dimostrazione indiretta del fatto storico principale: il capitalismo non funziona più. Da otto anni il sistema internazionale sopravvive grazie a un’espansione illimitata della liquidità e del debito, il cui costo è appena attenuato da un periodo pressoché infinito di tassi di interesse a zero o negativi. Ma neanche questa soluzione “non convenzionale” ha smosso di un millimetro il problema: l’economia reale non riparte perché la produzione possibile eccede di gran lunga la domanda solvibile (non i “bisogni” dell’umanità, ma la quantità di reddito disponibile per i consumi); le banche soffrono per i prestiti che non rientrano, per la sovrabbondanza di titoli tossici in cassaforte e per i tassi a zero (che limitano fortemente la redditività dei loro “investimenti”); la finanza internazionale non sa più dve “rifugiarsi” davanti alla prospettiva – quasi annullata, dopo i primi tragici 40 giorni del nuovo anno – di un rialzo dei passi di interesse e dell’interruzione dei “quantitative easing”.
Di fronte a questo quadro, sia pur sommario, qualsiasi visione politica all’altezza del problema dovrebbe prescindere da qualunque interesse contingente (tipo di capitale, nazione, classe sociale, ecc) e muovere leve che impediscono a molti soggetti di agire come prima e permettono la nascita di processi in drastica, radicale, discontinuità col passato. Una rivoluzione, insomma, che però nessuno vuole. Soprattutto a bordo delle portaerei finanziarie che scorazzano per il pianeta affondando oggi un paese, domani un continente.
Per questo, tra una settimana o poco più, i leader nazionali dell’Unione Europea si troveranno davanti alla più grave incertezza della loro breve storia personale: riscrivere indirettamente i trattati comunitari in direzione di una più ferrea integrazione o verso quella del “liberi tutti”, implicito nelle quattro richieste inglesi che sono state per ora accolte a livello di principio? In ogni caso si tratterà di una riscrittura e di un trauma. La maggiore integrazione pretenderebbe la condivisione delle risorse, ovvero la mutualizzazione del debito pubblico e delle conseguenti politiche fiscali, oltre che una condivisione delle garanzie bancarie – e dei conseguenti rischi. Il “liberi tutti” sulle regole di Shengen e l’accoglienza dei migranti renderebbe anacronistico anche il “vincolo comunitario” sulle leggi di bilancio e le politiche economiche nazionali. Di fatto, svuoterebbe il terreno su cui poggia la moneta unica, rendendo l’euro poco più che una unità di conto per cui non è possibile chiedere né sacrifici né impegni onerosi o duraturi.
La sensazione è che il prevedibile compromesso che uscirà dalle sale ovattate di Bruxelles sarà stavolta una toppa peggiore del buco. In primo luogo perché fallirà persino il primo obiettivo dichiarato: impedire la Brexit, ossia la vittoria di Cameron e del “sì” alla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione, nel referendum che si terrà a breve in quel paese.
La politica come risoluzione/superamento dei problemi è morta. Non saranno i suoi assassini, tanto meno quelli che tardivamente la rimpiangono, a farla resuscitare.
La parola sta infatti passando alla guerra.
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