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La Turchia prepara l’invasione della Siria ma pretende l’aiuto degli Stati Uniti

Ad Aleppo e su Aleppo si sta giocando in questi giorni una partita le cui conseguenze avranno una forte influenza sull’assetto futuro di tutto il Medio Oriente e del più generale quadro dei rapporti di forza tra le varie potenze regionali e internazionali. 
Il portavoce del ministero della Difesa russo, Igor Konashenkov, ha comunicato alcune ore fa che le truppe di Damasco avrebbero conquistato «oltre 800 chilometri quadrati di territorio e 73 centri abitati da inizio febbraio»; tra i successi dei lealisti anche la riconquista della centrale elettrica a est di Aleppo da tempo controllata dall’Isis.
Mentre le truppe governative sono all’offensiva e ogni giorno conquistano posizioni sostenute da iraniani, libanesi e russi, le potenze sunnite reagiscono istericamente minacciando –e preparando – un intervento di terra che potrebbe non solo innescare una dura reazione da parte dell’asse sciita, ma anche costare caro a Riad ed Ankara che dietro il loro attivismo militare nascondono in realtà una sempre più evidente debolezza sul piano interno ed internazionale.

Alla Turchia che accusa la Russia di “crimini di guerra” incolpando l’aviazione di Mosca di aver sganciato le bombe che hanno centrato scuole ed ospedali facendo strage di civili, il governo russo risponde negando ogni responsabilità ed anzi rimproverando ad Ankara le sue ambiguità nella lotta contro il jihadismo e la campagna militare dell’esercito turco contro i curdi siriani, che oggettivamente indebolisce il contrasto a Daesh e alle sigle legate ad Al Qaeda.
In particolare, nel corso di un’intervista a Russia Today, la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha accusato la Turchia di «minare gli sforzi che sono stati fatti anche dagli Stati Uniti, come anche i grandi sforzi nella ricerca di un consenso a Monaco». «Appena era stato stabilito il processo negoziale di Vienna hanno abbattuto un jet russo – ha detto Zakharova -. Ora subito dopo la conferenza sulla sicurezza di Monaco, dove è stato adottato un documento molto importante per un graduale cessate il fuoco, il territorio siriano viene violato in modo sfacciato, viene bombardato, la sua sovranità, la sua indipendenza e il diritto internazionale violati». Riferimenti che colpiscono nel vivo Ankara ma soprattutto gli Stati Uniti: i due paesi sono formalmente alleati e tra i principali partner della Nato e della cosiddetta ‘coalizione internazionale contro l’Isis’. Ma mentre Washington sostiene le milizie curde contro i jihadisti, i turchi le bombardano; mentre Obama stringe rapporti strumentali e vai a sapere quanto duraturi con Iran e Russia per indebolire le organizzazioni jihadiste in Medio Oriente, Erdogan e i sovrani sauditi le sostengono a tal punto che ora che l’offensiva lealista ottiene rapidi risultati le potenze sunnite si preparano ad un intervento di terra che potrebbe avere conseguenze gravissime.
Ankara continua a chiedere un intervento militare statunitense per ‘proteggere i suoi confini dai terroristi” – intendendo sia i jihadisti che le milizie curde – insistendo sul fatto che “senza un’operazione di terra sarà impossibile mettere fine alla guerra”. Ed intanto, per il quinto giorno consecutivo, la sua artiglieria continua a bersagliare le postazioni delle Ypg, mentre foto scattate da attivisti curdi mostrano colonne di carri armati turchi schierati non solo in direzione di Aleppo ma anche molto più ad est, lungo la frontiera con Kobane.

Ankara vuole assolutamente impedire che la Azaz, controllata dai jihadisti, venga liberata dai governativi siriani e dai curdi, il che chiuderebbe quasi del tutto la via ai rifornimenti di armi e volontari provenienti dal territorio turco a beneficio delle varie sigle del fondamentalismo sunnita. Che nel frattempo cercano di correre ai ripari: per reagire all’offensiva lealista, nove diversi gruppi armati hanno deciso di mettersi al comando di Abu Jaber, ex comandante di Ahrar al-Sham, gruppo estremista salafita che tra i suoi obiettivi ha quello di fondare un suo ‘stato islamico’ e che è legato ad Al Qaeda. A confermare l’inconsistenza e l’assoluta mancanza di moderazione da parte delle forze della cosiddetta ‘opposizione moderata’ il fatto che anche la Sedicesima Divisione del morente Esercito Siriano Libero sia confluita nella nuova coalizione jihadista.

Nel contempo, sul fronte opposto, il Pyd – il partito curdo siriano gemellato con il Pkk – sembra aver approfondito e rafforzato la propria collaborazione con le forze lealiste siriane oltre che con il governo russo, ottenendo in cambio un esplicito riconoscimento da parte del governo Assad (esplicitato in una inusuale dichiarazione dell’ambasciatore di Damasco all’Onu, al Jaafari, che ha dichiarato il suo sostegno al partito curdo).
Quando i rappresentanti del governo russo mettono il dito nella piaga dei contraddittori rapporti tra Stati Uniti e l’asse formato dalla Turchia e dalle petromonarchie sa di far male ad entrambe. Il regime turco vorrebbe che a togliergli le castagne dal fuoco – evitare la disfatta delle sue pedine in Siria e di vedere frustrate le proprie rivendicazioni politico-territoriali sul paese confinante, oltre che impedire la eventuale costituzione di uno stato curdo alla propria frontiera – siano gli Stati Uniti.

Ma difficilmente l’amministrazione Obama potrà acconsentire alle richieste turco/saudite di intervenire con un’operazione di terra sul suolo siriano il cui obiettivo non potrebbe essere che quello di occupare quanto più territorio possibile per consegnarlo ai regimi di Ankara e Riad che vi installerebbero uno pseudo-stato fantoccio governato da forze fondamentaliste e settarie sunnite. Turchia ed Arabia Saudita, anche se fanno la voce grossa, sanno di essere in una posizione di estrema debolezza: “Alcuni paesi, noi, l’Arabia Saudita e alcuni paesi europei hanno detto che un’operazione di terra è necessaria. Ma aspettarsela solo da noi, dai sauditi e dal Qatar non è né giusto né realistico” si è lamentato di fronte ad alcuni giornalisti il ministro degli esteri neo-ottomano Cavusoglu.

Sul terreno, intanto, l’inviato speciale dell’Onu Staffan de Mistura è arrivato a Damasco dove si è incontrato con le autorità siriane ottenendo per ora un alquanto teorico via libera alla distribuzione di ingenti quantità di aiuti umanitari a sette comunità sotto assedio (solo una parte delle assai più numerose città senza acqua, né cibo né elettricità): Deir Ezzour, Fou’a e Kfarya, Madaya, Zabadani, Kfar Batna e Moadamiyeh. I convogli dovrebbero partire in queste ore, fanno sapere dalle Nazioni Unite, ma non è affatto detto che le forze in conflitto permettano il passaggio degli aiuti e che le milizie jihadiste non se ne approprino, come accaduto in passato.

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