Nell’annuncio della rinuncia all’incarico di premier Ahmet Davutoğlu ha usato tutta la diplomazia di cui la carriera accademica, prima di quella politica da ministro degli Esteri, l’ha dotato. Non s’è tolto nessun sassolino dalle scarpe, non ha manifestato malumori nei confronti dell’ingrato ‘capo’ che ne ha progettato l’abbandono anticipato, non ha lanciato invettive (non è nel suo stile e forse ne teme le conseguenze) contro il potentissimo presidente. Eppure, nonostante il pacificatorio annuncio nel quale ha riferito di “necessità” della politica e della nazione, oltre che del partito, ad attuare il passo compiuto, vari commentatori turchi sostengono come anche il fedelissimo professore avesse sollevato perplessità attorno alla fregola con cui Erdoğan cerca soluzioni per decretare il passaggio a una Repubblica presidenziale. La grande ripresa dell’Akp nelle ultime elezioni di novembre, rispetto alle precedenti di giugno, non aveva prodotto l’agognata maggioranza assoluta con cui il partito di governo può modificare da solo la Carta Costituzione. Del resto proprio il presidente aveva vanificato ogni tentativo di accordo anche nel formare una coalizione che dotasse il Paese di un esecutivo transitorio per giungere a quel dibattito.
Erdoğan visto anche il clima di caos interno – in parte subìto in parte fomentato dal regime – ha puntato tutto sullo scontro elettorale, acuendo i conflitti con gli oppositori (comunità kurda, giovani antagonisti delle metropoli, sindacalismo e sinistra), polarizzando lo scontro con la stessa componente conservatrice e reazionaria del kemalismo nazionalista. A quest’ultima ha scippato un pezzo di elettorato, consolidando la posizione del partito islamico presentato come unico garante del futuro. Ha ottenuto l’ennesimo successo ribadendo un enorme potere personale. E la sua ambizione non vuol recedere da questo punto, sebbene l’asso nella manica, che nella partita elettorale era stato il tema della sicurezza interna, continua a subìre i colpi degli avversari armati (fondamentalisti e guerriglia del Pkk) che ripetono sanguinosi attentati. Forse il sacrificio dell’ex sodale, che in ogni caso si presta rinunciando alla doppia leadership di governo e di partito, non si concluderà né col battibecco, comunque contenuto, che Erdoğan ebbe con l’amico Gül, critico delle sue scelte interne ed estere su Gezi park e ribelli siriani. E neppure con lo scontro aperto registrato verso un altro alleato dei tempi felici, Fetullah Gülen. Ma quel che apertamente il ‘sultano’ sembra cercare è un cortigiano che ricopra l’incarico di primo ministro ridotto a suo segretario particolare, una sorta di coordinatore del presidente factotum.
Insomma ciò che ancora non riesce a ottenere con un cambio delle normative costituzionali Erdoğan vorrebbe introdurlo snaturando il ruolo del premier. L’opposizione, soprattutto repubblicana, ha definito la scelta delle dimissioni di Davutoğlu un “colpo alla democrazia” perché spiazza esecutivo, parlamento, finanche il partito di governo con una scelta che sembra piovuta dal cielo perché il premier non è incorso in nessun passo falso. Anzi negli ultimi tempi ha riservato alla nazione un buon trattamento dell’Unione Europea sulla questione dei profughi e per i visti di trasferimento dei propri concittadini. I leader repubblicano Kılıçdaroğlu e democratico del popolo Demirtaș hanno espressamente criticato la malcelata ingerenza presidenziale verso il collega. Eppure le manovre interne nel partito della Giustizia e dello Sviluppo parlano di uno schieramento schiacciate (47 su 50) a sostegno delle dimissioni dell’ormai ex segretario; mentre tutti gli occhi sono rivolti al possibile nuovo esponente che occuperà, come previsto dalla consuetudine, i due incarichi ma soprattutto dovrà servire il ‘sultano’. Due i nomi in corsa: gli attuali ministri dei Trasporti Yıldırım e dell’Energia Albayrak. Vinca il più fedele.
Enrico Campofreda
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa