La via dell’assedio – L’ultimo annuncio giunge da Tarinkot, cittadella di settantamila anime, nella provincia dell’Uruzgan che di abitanti ne ha poco più di trecentomila, né piccola, né grande ma certamente poco ricordata nelle cronache dall’Afghanistan. E’ una provincia che sta a nord di Kandahar, l’antica Alessandria Arachosia dei tempi di Alessandro il Macedone, ed ex capitale afghana sotto la dinastia Durrani. A Kandahar molti talebani sono di casa, hanno radici, parenti, legami tribali. E un bel pezzo di quel territorio, seppure desertico, è controllato dalle loro milizie. Ma sappiamo come da oltre un anno, la tattica dei Talib sia quella di prendersi, villaggi e città, con blitz armati, più o meno duratori, soprattutto per dimostrare l’inconsistenza dell’esercito afghano e di quello che sta a monte: il progetto americano di costruire e sostenere una struttura militare a difesa di un’amministrazione evanescente, plasmata sulla figura di Ghani. Attualmente la provincia di Helmand è all’80% controllata dai clan talebani; nell’immaginario quadrilatero: Kunduz (nord-est), Kabul (est), Herat (nord-ovest), Kandahar (centro-sud) si stanno sempre più allargando le decine e decine di chilometri quadrati dove i turbanti stabiliscono una presenza continua, subìta o accettata dalla popolazione, che comunque non digerisce la presenza straniera targata Nato e quei contractors, ingaggiati dalla stessa Multiforze, che sono diminuiti, non scomparsi.
Campagna antioccidentale – Su questo tasto batte ossessivamente la propaganda guerrigliera che mette da due anni a repentaglio ogni presenza occidentale, compresa quella di vere Ong o di strutture sanitarie come Emergency e Médecin sans Frontières. Lunedì scorso, ad esempio, è stata assalita la sede della Care International, organizzazione umanitaria statunitense che i talebani accusano essere “un ufficio d’informazione degli invasori”. Con un comunicato Care sostiene che la loro sede è stata scambiata per un ufficio governativo, ma potrebbe essere un’interpretazione soggettiva. Informatori o benefattori, l’azione è costata la vita a 35 persone, colpite sia dalle esplosioni provocate da due kamikaze, sia dalle sventagliate di mitra del commando composto da cinque miliziani determinati ed efficienti. Peraltro l’attacco ha interessato un punto centralissimo della capitale, Shar-e Naw, un’area con un giardino e una moschea distante neppure un chilometro dall’ambasciata statunitense. Luogo teoricamente ben più vigilato dell’università americana, ultimo bersaglio delle incursioni a Kabul, e luogo vicinissimo a quello che un tempo era la “città proibita”: la zona delle ambasciate, dove doppie e triple cinte murarie con rispettive guardie dovrebbero rendere impossibile gli assalti. L’attualità smentisce il passato, la situazione è in evoluzione a tutto discapito della sicurezza dei compound della burocrazia e di chi sfortunatamente si trovasse a transitare nei paraggi, visto che negli attentati muoiono anche i civili.
Difficile ogni cosa – Amnesty International afghana ha definito l’ultimo evento mortale nella capitale “un crimine di guerra” perché impedisce ogni tipo d’intervento, anche quelli di semplice sostegno della popolazione consolidati da tempo, di cui si ha trasparente certezza su pratiche e finalità. Considerazione che, comunque, dovrebbe fare i conti col piano internazionale volto a impedire un’economia autoctona. Certamente quest’aria pesante e insanguinata sminuisce l’agibilità anche alle micro imprese, come quelle di cui v’abbiamo narrato anni addietro durante un reportage nel 2013. Esempi minuti ma efficaci di supporto a giovani donne, frutto dell’impegno dell’associazione Opawc a Kabul ovest. Con l’escalation di una insicurezza generalizzata anche le scuole per orfani, le case-rifugio per donne abusate non possono più ricevere le visite di operatori e sostenitori stranieri; eventi praticati negli anni scorsi, pur sotto le minacce del conflitto. Incursioni sempre più frequenti si registrano nelle aree settentrionali di Baghlan e Paktia a est. Sempre a est, a Nangarhar gli scontri con l’Afghan Security Forces risultano feroci per stessa ammissione di fonti governative. Il ministero della Difesa in carica riconosce che solo in questa fase le operazioni impegnano l’esercito in quindici province. Quelle afghane sono 34, quasi la metà del Paese è sotto attacco. E’ l’attuale volto d’una nazione sempre più liquida, dove la guerra, che non è mai finita, torna a essere rovente.
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