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Stati Uniti. Il paese reale che ha sconfitto Hillary

È successo. Donald Trump è il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d'America, il primo arrivato alla Casa Bianca senza alcun tipo di esperienza politica né militare, il più anziano (ha 70 anni, uno in più di Ronald Reagan nel 1980).

L'analisi su che presidente sarà è ancora acerba, impossibile azzardare previsioni in presenza di un uomo del genere, capace di sostenere tutto e il suo contrario, e di non pagare per questo alcun prezzo in termini di popolarità. Insomma, nessuno sarebbe sopravvissuto a una campagna elettorale come quella che gli è stata costruita contro: frasi contro gli handicappati, contro le donne, contro i messicani, contro i cinesi responsabili del complotto sul riscaldamento terrestre. Su Contropiano ne avevamo parlato tempo fa: è l'impopolarità di successo. E la sensazione è che tutte le gaffe degli ultimi due anni siano state in un certo senso cercate: in effetti, durante la campagna, non si è parlato delle idee di Trump – posto che sia possibile trovarle, da qualche parte – ma si è perso un sacco di tempo a cercare l'ultima frase inopportuna pronunciata dal magnate newyorkese nell'ultimo fuorionda di chissà qualche programma televisivo. Lo accusavano di essere sessista? Chi, i Clinton? Sul tema dovrebbero essere gli ultimi a parlare, è una questione di credibilità non fattuale. Cioè, che Bill abbia molestato o non molestato delle donne è un particolare del tutto irrilevante.

A guardare i dati ci si rende conto delle dimensioni di quello che è successo nella notte italiana tra martedì e mercoledì: Trump è andato (molto) bene nelle zone in cui i repubblicani vanno tradizionalmente (molto) bene: campagne, zone rurali, la mitologica Deep America. Clinton non ha raccolto quanto avrebbe dovuto nelle zone in cui i democratici di solito sfondano: città, periferie urbanizzate, minoranze. Il caso da osservare è quello della Florida, vinto dal candidato repubblicano per poco più di un pelo proprio perché dove avrebbe dovuto vincere ha stravinto, mentre la Clinton dove avrebbe dovuto stravincere ha vinto con margini piuttosto bassi. Il «paese reale», ecco chi ha espresso la condanna più severa: non Donald Trump, né il Grand Old Party, ma quelli che non sono andati a votare o sono andati e hanno votato contro. Comprensibilmente contro.

C'è poi tutta la questione della Rust Belt: la zona industriale tra Pennsylvania, West Virginia, Ohio, Indiana, Michigan, Illinois, Iowa e Wisconsin: depressa, demolita dalla crisi economica, incapace di rialzarsi. Bene dire che l'economia è cresciuta, ma se gli stipendi non si alzano tutto questo non conta nulla. (Pensiamoci un attimo: Renzi ha vinto le europee con gli 80 euro, cioè quando ha alzato gli stipendi).

Qui per la Clinton è stato un bagno di sangue: dove avrebbe dovuto vincere facile ha vinto con fatica immane, in qualche caso ha addirittura perso. E Donald Trump ha preso il volo. La partita è finita quando ci si è resi conto che il repubblicano aveva vinto in Winsconsin, Indiana, Ohio, Pennsylvania e West Virginia. A quel punto neanche il Michigan in bilico sarebbe stato utile per una rimonta di Hillary.

Ecco, Hillary. Dopo aver vinto le primarie con Bernie Sanders in maniera quantomeno discutibile – il partito che ha fatto campagna per lei in maniera sfacciata e in opportuna, gli accordi sottobanco con i presentatori della tivvù per non sfigurare ai dibattiti, persino l'organizzatrice delle primarie che era stata costretta a dimettersi per aver superato i limiti della decenza e che poi è stata assunta nello staff della Clinton, e l'elenco delle nefandezze potrebbe continuare ancora –, la candidata alla presidenza è stata costretta ad andare proprio dall'anziano socialista del Vermont ad elemosinare un po' di popolarità. Alla fine Bernie campagna l'ha fatta davvero, ma i suoi elettori erano irrimediabilmente delusi. Cioè, magari sono andati davvero anche loro a votare per Hillary, ma senza grande entusiasmo, senza coinvolgere nessuno. Soli e sfiduciati alla meta, d'altra parte l'establishment democratico li aveva massacrati senza pietà per mesi, trattandoli come sognatori senza speranza quando non come idioti totali, alla stregua dei sostenitori di Trump. Nota per il futuro: se vuoi vincere le elezioni prenditela pure con l'altro candidato, ma non con i suoi elettori, perché potrebbero ricordarselo.

Hillary come estremo difensore della classe media impoverita – la «maggioranza silenziosa» già analizzata da Steven Spielberg nel seminale film «Duel», che a pensarci bene è una bella metafora di questa tornata presidenziale – non aveva alcuna credibilità. Mentre con la mano sinistra accarezzava un po' schifata la testa dei poveri, con la destra incassava i lauti compensi di Goldman Sachs per delle conferenze in cui si ergeva a paladina della stabilità dei mercati. Quegli stessi mercati ritenuti – probabilmente a ragione – il grande nemico di questa stagione: quelli che impongono l'austerità, pignorano case e stipendi, fanno calare una fitta cortina di nebbia su ogni ipotesi di futuro.

Infine, Clinton era fondamentalmente una minestra riscaldata. In politica dall'alba dei tempi, già sconfitta da Obama nel 2008, fallimentare Segretario di Stato, senza slogan, senza nemmeno un logo convincente (il suo ricordava vagamente le insegne del pronto soccorso, per dire). Quale entusiasmo avrebbe potuto suscitare? Nessuno, e infatti. La discesa in campo di Hillary (l'ennesima) non era sospinta da chissà quale grande afflato politico, ma era soltanto un «rieccola», la riproposizione di uno schema già visto, la mediocrità di chi è sempre stato lì in alto e vuole continuare a starci, probabilmente per diritto divino. Una storia che ha stancato: come nella locura di Boris è chiaro che «la gente vuole un qualche cazzo di futuro», e Clinton non è stata capace di proporre nulla che già non fosse andato in scena sugli stantii palcoscenici della politica statunitense.

La modesta proposta, adesso, è di mettere al bando le parole «populismo» e «demagogia». Sono gli effetti, non le cause, e combattere i sintomi non vuol dire sconfiggere una malattia che si chiama turboliberismo, quello che non fa più prigionieri, che se ne frega della società e che bada soltanto agl interessi dei pochissimi: ricordate il 99% contro l'1% di Occupy Wall Street?

Gli americani sono arrivate a queste elezioni come Clint Eastwood in Gunny: cattivi, incazzati e stanchi. Il vecchio Clint, tra l'altro, era l'unico vip che ha sempre sostenuto senza indugi Trump, tanto per dare un altro dato di cronaca.

Resta una consolazione: ci attendono anni di grandi dischi punk. Di questi tempi non è poco.  

 
 
 
 

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