Dunque è chiaro, o quasi. Nella versione resa pubblica del rapporto dei servizi segreti USA, i presunti ciberattacchi russi che avrebbero consentito la vittoria di Donald Trump sono “dimostrati” di per sé, come una verità rivelata. “Non dovete meravigliarvi”, ha detto il portavoce del Dipartimento di stato, il contrammiraglio John Kirby, “che nella versione non classificata del rapporto supersegreto, fonti e mezzi siano protetti”; la loro divulgazione, ha detto il profeta, “sarebbe stata irresponsabile”. Dato che, sul tema, l'intelligence ha tenuto un briefing con Obama e Trump, questo deve costituire una professione “di fede da parte della gente”!
Di fronte a tanta apostolica fedeltà, come “meravigliarsi” se il presidente della Commissione esteri del Senato russo, Konstantin Kosačev parla di “fiasco dell'americanismo”, riferendosi ai disperati tentativi di Obama di attribuire a Putin la propria sconfitta. Questo, nel 25° anniversario della fine dell'Urss, continua Kosačev, che mentre “avrebbe dovuto metter fine alla contrapposizione dei blocchi”, ha visto Washington orientata all'allargamento a est della Nato, con l'emergere di “amici fidati quali Gran Bretagna, Polonia e Paesi baltici”, senza che a ciò “si contrapponessero i tradizionali leader europei: Germania, Francia e Italia”. Da qui, interferenze continue “negli affari interni di Stati sovrani, con lo slogan della sicurezza globale”, come in Jugoslavia, Georgia, Moldavia e Ucraina in Europa, oltre che nei paesi arabi e latino-americani, con “paesi come la Corea del Nord, che cercano di proteggersi tentando di creare proprie armi di distruzione di massa”.
E tutto ciò non viene “dal solo Obama e dalla sua allieva Clinton”: è il quartetto “Bush-Clinton-Bush-Obama, incapace di resistere alla tentazione di continuare a dettare la volontà del "vincitore" al mondo esterno”. Così “Obama non è solo un presidente che ha perso; è il simbolo della fine dell'epoca del “post-guerra fredda” durata 25 anni”.
All'origine di tutto, c'è quindi una innata russofobia occidentale, che si fa risalire ad almeno tre secoli fa e la russa RT prende spunto da un servizio, per certi aspetti interessante, de Il Giornale, per inquadrare l'odierno atteggiamento occidentale verso Mosca in una tradizione storica che, però, salta a piè pari un'intera fase dello sviluppo sociale non solo russo, ma mondiale: il periodo sovietico.
La “paura” della Russia sarebbe insomma rappresentata esclusivamente dai timori occidentali di vedersi sottratte sfere di intervento economico e geopolitico, in una innegabile lotta per la supremazia. Che l'impero zarista che sconfisse Napoleone, infrangendo l'espansionismo francese succeduto alla Grande rivoluzione, fosse quella “prigione dei popoli” che imponeva all'Europa la controrivoluzione assolutista e semifeudale, scompare nella narrazione della “grandezza storica” nazionale russa. Una grandezza che nei circoli nazional-patriottici prende oggi il posto di una visione di classe, porta ad accomunare i progressi di Pietro il Grande con le realizzazioni dell'epoca socialista ed è largamente sfruttata a fini che, di sociale, hanno solo – come direbbe Friedrich Engels – “la produzione” e mantengono saldamente “in mano privata l'appropriazione degli strumenti e dei prodotti” di quella produzione.
Che nel XVIII e XIX secolo l'impero britannico e la monarchia francese si scontrassero con l'impero zarista nella spartizione dell'intera fascia meridionale e orientale euroasiatica, non esclude che, a quel tempo, gli istituti della democrazia borghese britannica sopravanzassero di molto i forti residui feudali che contrassegnavano la burocrazia nobiliare zarista. Al contrario, la moderna russofobia pare nutrirsi di elementi che effettivamente avevano caratterizzato il dispotismo zarista, per affibbiarli sic et simpliciter al socialismo sovietico, come fenomeni che sarebbero congeniti alla tradizione “barbarica” russa.
Ovviamente, nella disamina storica de Il Giornale, di Rivoluzione socialista e di periodo sovietico non si parla. Semplicemente, non esiste. Nemmeno una parola su quella particolare russofobia che, tra il 1918 e il 1921, portò truppe dei maggiori stati capitalisti – Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Cecoslovacchia, Giappone – a tentare di soffocare con le armi la giovane repubblica sovietica; non si parla dell'accerchiamento cui questa fu sottoposta per due decenni e nemmeno di come si cercasse fino all'ultimo di indirizzare a est l'aggressione nazista; non si parla dei piani anglo-americani di annientamento dell'Urss iniziati a guerra non ancora terminata.
La russofobia descritta da Il Giornale e congeniale anche a molti settori nazionali russi fa perno esclusivamente sulla contrapposizione di interessi espansionistici est-ovest e ignora bellamente la sovietofobia, ad esempio, che si esprimeva negli attacchi (allora non cibernetici) portati all'Urss attraverso premi Nobel assegnati ai cosiddetti “difensori dei diritti umani”: difensori così nobili da invocare il lancio di missili nucleari su Mosca. E ora ai nazional-patrioti russi, scrive Aleksej Šmagirev su rotfront.su “piace la potenza creata dalla rivoluzione in Urss, ma non vogliono ammettere che quella fosse una potenza socialista, di uno stato operaio-contadino, costruito sotto le insegne e sulla base delle idee del marxismo, tra cui quella (cosa che a loro non piace particolarmente) dell'internazionalismo proletario”.
Non si parla mai di socialismofobia da parte di coloro che denunciano, a ragione ma in maniera parziale, l'attuale russofobia come il paravento per mascherare l'arretramento della potenza geopolitica statunitense e il conseguente accerchiamento militare della Russia. Ma non ne parla nemmeno chi, di converso, riconosce i risultati della Rivoluzione socialista solo per accomunarli al “genio” russo di ogni epoca e sotto ogni regime. Non sarà piuttosto la che russofobia odierna affondi le radici non tanto, o non solo, nei timori suscitati dalle innovazioni di Pietro I che fecero grande la Russia, quanto nella paura del socialismo nata nel 1917, rafforzatasi nel 1945 e che non ha mai abbandonato i circoli capitalistici? Una paura di socialismo che oggi è molto comodo far passare fluidamente, come una fantasiosa continuità storico-politica, nella Russia odierna uscita dalla cosiddetta perestrojka e dalla controrivoluzione del 1991.
Se è così, parlando di questa russofobia, è difficile perdere di vista quei 29 miliardi di dollari di cui, secondo Forbes, si sarebbe complessivamente accresciuto (+7,1%, contro il 2,8% dei miliardari USA) il patrimonio dei più grossi miliardari russi solo dal momento dell'elezione di Donald Trump, a cominciare da Gennadij Timčenko (15,1 miliardi dollari di patrimonio) e Leonid Mikhelson (18,2 miliardi) grazie soprattutto al balzo delle azioni Novatek.
Secondo il deputato del PCFR Vjačeslav Tetëkin, nel 2016 il patrimonio complessivo dei maggiori magnati russi si è accresciuto di 49 miliardi dollari, così che la tutt'altro che comunista Nezavisimaja gazeta, scriveva il novembre scorso che continua ad allargarsi la forbice tra quel 10% di russi che detiene il 90% dei beni del paese e la massa – per citare solo una fetta di popolazione – di pensionati che stanno aspettando l'elargizione una tantum di 5.000 rubli (circa 86 dollari) promessa per inizio 2017, a compensazione della mancata indicizzazione dell'estate scorsa.
Pensionati che continuano a chiedersi come mai, se lo stesso governo aveva quantificato al 40% l'accrescimento di ricchezza dei miliardari nel 2015, anche le pensioni non vengano elevate del 40% e si siano invece svalutate del 9%. Secondo il Credit Suisse, da metà 2015 a metà 2016 il patrimonio del russo medio adulto (ovviamente, di quel 90% di russi che detiene il 10% della ricchezza) valutato in dollari è sceso del 14,4%: da 12.086 a 10.344 dollari. Il che è giudicato un “progresso” rispetto alla caduta del 40% dell'anno precedente, quando il patrimonio medio era valutato a 19.590 dollari. Nello stesso periodo, sarebbe rimasto stabile il numero di miliardari (96), mentre si è ridotto del 16% quello dei “semplici” milionari: da 94mila a 79mila. A fronte di ciò, ancora due mesi fa, si considerava che oltre il 60% della popolazione disponesse di un patrimonio tra il 70% e il 200% del minimo di sopravvivenza, valutato a circa 11mila rubli.
Un'analisi della cosiddetta russofobia che eluda i caratteri di classe di “accusati” e “accusatori”, che si limiti alla pura e semplice “continuità storica”, eludendo passaggi epocali fondamentali, appare tanto comoda quanto superficiale.
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