La Brexit, alla fine, parte sul serio. Oggi alle 13.30 l’ambasciatore britannico a Bruxelles consegna al presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, la lettera firmata da Theresa May che apre la procedura prevista dal Trattato di Lisbona (vedi in fondo all’articolo). Com’è noto, questa è la conseguenza del referendum del 23 giugno 2016, in cui la maggioranza dei votanti si è espressa per lasciare l’Unione Europea. La durata prevista per i negoziati è di due anni, per quanto previsto dall’art. 50; si vedrà solo strada facendo se saranno rispettati questi tempi. Si tratta infatti della prima uscita dall’Unione, e quindi non esistono precedenti.
La materia è complicatissima, anche se la Gran Bretagna non era mai entrata anche nella zona euro, mantenendo la propria moneta nazionale. Ciò nonostante, i trattati firmati in passato coinvolgono circa 19.000 norme europee fin qui condivise da Londra. Il Parlamento britannico (non “inglese”, visto che il Regno Unito comprende anche Galles, Scozia e Irlanda del Nord) per parte sua dovrà ora decidere quali rimarranno in vigore all’interno del paese, trasformate ovviamente in leggi nazionali, e quali lasciar cadere.
In primo luogo bisognerà cancellare l'European Communities Act del 1972 attraverso il quale il Regno Unito si impegnò a recepire la legislazione comunitaria, approvando un apposito Great Repeal Bill. Da lì in poi, a cascata, comincerà l’analisi delle singole leggi e degli infiniti regolamenti applicativi sagomati su quella decisione originaria. Si parla di materie complesse già ognana per sé, come energia, lavoro, trasporti, pesca, agricoltura. Per assurdo che possa sembrare – ad esempio – potrebbe peggiorare ancora la legislazione britannica sul mercato del lavoro, visto che gli imprenditori di Londra premono da tempo per eliminare una serie di limitazioni agli orari e ai turni di lavoro previste dalla legislazione europea (peraltro già molto permissiva). A quanto pare la “flessibilità” è un concetto a sua volta flessibile, che può esser tirato fino a coprire l’arco delle 24 ore quotidiane.
Da destra – ovvero dal partito conservatore che ha scelto proprio Theresa May per gestire la Brexit – questa viene vissuta come l’occasione per un nuova ondata di deregulation, vasta e traumatica quasi quanto quella, famosa, di Margaret Thatcher.
C’è da dire che “i mercati” – chiamati a premere per il remain durante la campagna referendaria, con tutti gli opinionisti scatenati a dipingere scenari economici disastrosi se avesse vinto il leave – hanno clamorosamente smentito se stessi. Sia le borse continentali che quella di Londra hanno preso benissimo il voto referendario, con guadagni pressoché identici, vicini al 14%. L’unica conseguenza su questo piano è non a caso “politica”, più che strettamente economica. L'Antitrust Ue ha infatti deciso di bloccare la fusione tra il London Stock Exchange e la Deutsche Boerse, ovvero tra le borse di Francoforte e Londra (che comprende anche Piazza Affari di Milano). Questa "avrebbe ridotto in modo significativo la concorrenza e creato un monopolio di fatto nell'area cruciale degli strumenti a reddito fisso", ha dichiarato la commissaria Ue alla concorrenza Margrethe Vestager.
Le incognite sembrano al momento più che altro geopolitiche. L’uscita della Gran Bretagna priva infatti la nascente “difesa europea” – un vasto programma di riarmo e di aumento della spesa militare, annunciato proprio a Roma nel vertice dei 27 paesi rimasti nella Ue – di un pilastro operativo importante e sempre messo alla prova negli ultimi 70 anni “di pace”. Vero è che resta in piedi l’alleanza comune nella Nato, ma sembra abbastanza chiaro che l’autonomizzazione europea anche sul piano militare – paradossalmente chiesta proprio dagli stati Uniti, con l’inizio della presidenza Trump – costituisce una novità importante, dalle implicazioni tutte da scoprire.
Non è un mistero che la May e i conservatori inglesi pensino di poter compensare gli svantaggi della Brexit nei rapporti con l’Unione – non sarà semplice mantenere i livelli di import ed export con i 27 – attraverso una ripresa di protagonismo sulla scena mondiale, in ticket stretto con gli Stati Uniti. Ma proprio questo protagonismo “competitivo”, probabilmente attivo attraverso la moltiplicazione di rapporti bilaterali, non mancherà di provocare frizioni e tensioni fin qui evitate da rapporti commerciali comunitari.
Ne sembra più che consapevole la stessa May: "Questo si traduce non solo nel costruire nuove alleanze ma ampliare i rapporti coi vecchi amici che sono al nostro fianco da secoli". Ovvero gli Stati Uniti.
Ma Londra deve fare i conti con le spinte opposte degli altri “paesi” presenti nel Regno Unito. Il parlamento scozzese, proprio ieri, ha approvato l’indizione di un nuovo referendum per staccarsi dalla Union Jack. La proposta era stata presentata dalla first minister e leader indipendentista dell'Snp, Nicola Sturgeon. A complicare ogni lettura “politicista” c’è il fatto che il governo scozzese è laburista, e vuole la secessione per restare nell’Unione Europea. Ma è evidente che qui pesano fattori storici e nazionali (senza risalire fino a William Wallace…).
Stesso discorso anche per l’Irlanda del Nord, dove pure c’è stata una prevalenza netta del remain (oltre il 55%). Qui per il momento non ci sono richieste di referendum, anche perché la popolazione è divisa tra una maggioranza protestante comunque filo-inglese e una minoranza cattolica che da sempre conduce una fiera resistenza contro i colonizzatori. Un referendum, nell’Ulster, riaprirebbe insomma ferite mai del tutto chiuse, nonostante gli accordi di pace siglate al tempo di Tony Blair con i leader dell’Ira e del Sinn Fein.
La Gran Bretagna si trova dunque di fronte a un percorso molto denso di incognite – ripetiamo – più geopolitiche che economiche. E’ infatti palese l’intenzione dell’Unione Europea di alzare al massimo i costi del distacco per Londra. Il capogruppo del Ppe al Parlamento europeo, Manfred Weber, ha per esempio promesso che "Per la Gran Bretagna sarà molto costoso lasciare l'Unione europea". Preannunciando che soprattutto la Germania spingerà affinché durante il periodo dei negoziati e quello transitorio, Londra debba "rispettare tutti gli obblighi in corso e la legislazione in corso, se no sarebbe un comportamento irrispettoso che creerebbe problemi ai negoziati". Soprattutto, un’uscita a prezzi stracciati incentiverebbe iniziative analoghe anche da paesi più deboli, in difficoltà crescente con il rispetto di “parametri” e “trattati” che li vanno impoverendo giorno dopo giorno.
Weber ha tracciato un quadro particolarmente minaccioso, in linea con la fallimentare linea seguita durante la campagna referendaria inglese (e italiana, in vista del 4 dicembre): "Avremo in mente solo l'interesse dei 440 milioni di cittadini europei e non più quello dei cittadini britannici. Uscire dall'Ue significa costruire di nuovo muri e barriere e molti cittadini britannici avranno problemi con limitazioni della loro libertà nella vita quotidiana. Non mi piace ma è il risultato del referendum e tutti devono affrontare la realtà". Silenzio invece sulle difficoltà che in questo modo verrebbero create a cittadini e imprese operanti in Gran Bretagna.
Tutti a fare la faccia dura, insomma. Come se davvero si potesse credere che l’”avversario” non abbia altra possibilità oltre la resa. E’ così, del resto, che si arriva ai punti di rottura e alle situazioni di crisi “che nessuno voleva”.
La globalizzazione, da oggi, è un lontano ricordo.
L’art. 50 del Trattato di Lisbona
1. Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall'Unione.
2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l'Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l'Unione. L'accordo è negoziato conformemente all'articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Esso è concluso a nome dell'Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo.
3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d'intesa con lo Stato membro interessato, decida all'unanimità di prorogare tale termine.
4. Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano. Per maggioranza qualificata s'intende quella definita conformemente all'articolo 238, paragrafo 3, lettera b) del trattato sul funzionamento dell'Unione europea.
5. Se lo Stato che ha receduto dall'Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all'articolo 49.
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